domenica 28 aprile 2013

Altri tempi (2)



Un perito agrimensore compose un opuscolo intitolato: Consalvo Uzeda principe di Francalanza, brevi cenni biografici, e glie lo presentò. Egli lo fece stampare a migliaia di copie e diffondere per tutto il collegio. Il ridicolo di quella pubblicazione, la goffaggine degli elogi di cui era piena non gli davano ombra, sicuro com'era che per un elettore che ne avrebbe riso, cento avrebbero creduto a tutto come ad articoli di fede.


Federico De Roberto, I Viceré  in Romanzi, novelle e saggi, Mondadori, p.1063

mercoledì 24 aprile 2013

tutti sono ostaggi del morto


<<tutti sono ostaggi del morto.
Per primo l'ospite prediletto,
legato dal segreto
che gli è stato confidato
perché lo conservi
in nome di una legge
che l'ha sorpreso
ancor prima di scegliere
se obbedirle oppure no>>

Enrico Testa, Ablativo, Einaudi 2013


venerdì 19 aprile 2013

Edipicità


La speranza è l'alibi della paura.
 
Elsa Morante, La serata a Colono

giovedì 11 aprile 2013

Morte dell'arte contemporanea?

Una donna addormentata in una teca. La teca esposta all'ingresso di un grande museo di arte contemporanea americano (il Moma di New York). La donna è un'attrice di cinema piuttosto famosa. La gente fa la fila per vederla. Il critico di un giornale nazionale italiano polemizza: morte dell'arte contemporanea. Avevo visto una cosa simile una ventina di anni fa al Link di Bologna (forse il primo spazio italiano di pura archeologia industriale dove si innestavano sperimentazioni d'arte concettuale, performance e musica nell'idea fondativa di una comunità trasversale e digitale all'alba dell'era di Internet): un ragazzo efebico, bellissimo, nudo, dentro a una teca, dormiva (faceva finta di), e nella teca, insieme a lui, zampettanti o striscianti lungo e accanto al giovane corpo, larve, scarafaggi, cavallette, vermi, ragni, biscie, lucertole. La teca era sistemata in mezzo a una stanza in penombra mentre, intorno, alcuni monitor televisivi mandavano le immagini delle ripetute operazioni di plastica facciale cui un'artista all'epoca famosa amava sottoporsi come forma estrema di body art. Ora, aldilà della reazione, epidermica o profonda di ciascuno (per me: repulsione e fascinazione ambiguamente mescolati), quella cosa dava un'idea di grandezza, di rischio, di messa in gioco totale, che è, alla fine, quello che si chiede all'artista: fare arte sulla propria pelle. So che la mia suonerà come un'affermazione provocatoria: ma come negare che una buona parte del fascino che emanano Van Gogh e Rimbaud provenga dalla performance di body art ante-litteram del primo quando si taglia l'orecchio, e dalla pistolettata a Verlaine o, in generale, dallo stravolgimento di tutti i sensi praticato e teorizzato dal secondo? Un'artista esplora i limiti. Ecco, allora, l'insopportabile sapore di mistificazione ipocrita di fronte a un'operazione come quella del Moma: al posto della grandezza nessun rischio, nessun coraggio, bassa furberia commerciale, senso distorto del gioco, strategia di marketing che si mangia il progetto artistico, equivoco ammiccamento al gusto mainstream scambiato per citazionismo della cultura pop, e altro ancora. Del resto, è quello che vedo in molta dell'arte contemporanea nella quale m'imbatto. Dell'artista coraggioso e provocatorio rimane una penosa parvenza: dalle opere s'intravede l'accorto amministratore di se stesso, della propria immagine, il tour operator del proprio mondo autoreferenziale. Il sentimento della realtà sparisce sotto la coltre del concetto e il concetto è già sparito da tempo sotto la cappa dell'autoesibizione o dell'intenzione allo stato puro. Ci vorrebbero artisti che si immolano. 
(pubblicato sul periodico Ecorisveglio) 

martedì 9 aprile 2013

domenica 7 aprile 2013

Una sacra rappresentazione (seconda puntata).

E' buio. Il prato si è riempito di gente. Sotto i piedi sento il viscido del terreno fangoso. Non piove. Ha piovuto. L'aria è fredda. Cerco l'asciutto. Paura di infangare le scarpe. Lasciti infantili. Mi trovo un posto dove posso mettere i piedi a secco. E' la canalina di gomma che racchiude la caveria dell'impianto. Non sono il solo sull'isola di gomma. Ma tra i naufraghi che vi han trovato asilo si fa finta di niente. Anche se poi formiamo una fila indiana che spicca nella distribuzione a macchia di leopardo del pubblico nel prato.
Poco prima avevo scambiato due parole con una signora seduta sulla panchina di fronte al palchetto del service audio-luci. Parlava al cellulare. A voce alta. “Sono uscita adesso, guarda... sì lo so che doveva venire... ma se io le andavo incontro poi mi toccava pagare per tornare qui... sai che è tutto chiuso no? poi mi fa: “voglio venire a vedere casa tua”... A me mi stanno sulle balle quelli che dicono così, no-o? Allora le ho detto di non stare a disturbarsi. Sì va bé, se vuoi venire io sono al Parco ***. Ciao”. La signora è una di qui. Saluta l'artigliere, che si è accollato il bazooka della macchina fotografica telescopica ultima generazione, mentre questi avanza verso la panchina sbilanciato in avanti da cotanto impianto: “in Valtellina al fioca” esordisce l'iperobiettivato, e poi mi guarda come a dire “tu che pensi?”. Ho infatti commesso l'errore di lanciare uno sguardo smarrito al bazooka e lui l'avrà preso per un moto d'ammirazione. Mi limito a mezzosorridere e distolgo lo sguardo.

Finalmente le luci di scena si levano e illuminano dal basso gli alberi dietro il tavolo. Belli gli alberi illuminati dai fari teatrali. Sono più veri. Adesso il tavolo, la scena - si illumina tutto. Poi sento un “no no no” a mezza voce, mi giro, e c'è uno degli artiglieri sul palchetto-service che dal giubbetto arancione si sbraccia verso una serie di fiaccole che hanno cominciato a muoversi e a prendere scena. Vedo il bianco degli occhi dei portatori di torce mentre torcono lo sguardo all'indietro nel tentativo di ritirarsi con nonchalance dallo spazio scenico indebitamente invaso. Ah ecco - dovevano aspettare la voce fuori campo che ora ci smicrofona altissima nelle orecchie un prologhino didattico su quello che andremo a vedere tra poco: l'Ultima Cena. Non si era capito. Coraggio – mi dico - è solo la prima scena.
In effetti la prima scena è dura da masticare. Ma c'è l'incanto dello spazio, degli alberi, degli oggetti illuminati a vita nuova dai riflettori: mi basta, anche se gli Apostoli stanno seduti come se fossero a una cena aziendale un pochino noiosa e compunta; indossano tuniche color terra di una bella stoffa pesante, ma si vede l'impaccio che provano sotto lo sguardo del pubblico; lungi dal tenerselo, l'impaccio, e di farlo uscire per quello che è, con la caratteristica personale che ciascuno di loro possiede nella vita – come le calate dialettali che sono belle in sé e non vanno corrette – cercano di nasconderlo recitando, seppelliscono la loro natura sotto una coltre di presunto savoir faire scenico, così l'effetto è doppiamente penoso (maledetta televisione!). Devo dire però che il Gesù e il San Pietro con le loro molto montanine parlate e i visi impassibili (forse a causa del fondotinta che imprigiona loro la pelle sotto uno strato brunastro?) hanno un che di arcaicamente popolare (per quello che può voler dire oggi quest'espressione): nella pronuncia del Gesù le “v” diventano quasi tutte “u”, com'è tipico della parlata di queste parti, avvicinando e addolcendo il personaggio. Così a partire da questo dettaglio fonico comincia a formarmisi nella testa l'idea che se il Sacro Monte di Varallo è qui vicino un motivo ci sarà; che forse la radice di quel meraviglioso teatro di pietra viva sarà sepolta un po' anche qua dentro, in questa recita che si annuncia lunghissima. Allora devo dimenticarmi dei microfoni, degli sfrigolii delle casse, delle voci amplificate che vanno e vengono, e dare invece importanza al fatto che quando le voci spariscono dall'impianto e ricadono preda dell'acustica naturale aprono di colpo un mare di suggestioni e rendono più concreto il dramma, altrimenti solo enunciato; al fatto che la serietà e la motivazione con cui queste centinaia di persone hanno lavorato per uno scopo comune - aldilà degli orgogli di campanile - contiene in sé un che di sacro. Sacro monte, sacro lavoro comune, sacro stare insieme, sacra fatica, dove forse le discordie si compongono secondo le tensioni del dramma, e dove le tensioni personali di quella comunità si possono almeno per un po' deviare, sospendere, alleviare? Sacra vacanza dall'ossessione dell'identità e dell'affermazione individuale? Da cui sacro teatro, sacro recitare, sacro stare ore e ore al freddo per costruire magari un solo momento memorabile...
Ma gli occhi sono traditori, è più difficile eludere la loro perenne malizia e irrequietezza, così che debbo fingere di non notare il baffo color carne dell'archetto che scava le guance di tutti gli attori; il trucco pesante sui volti, e insomma dimenticare che quello che vedo non dovrebbe assomigliare al set di Unomattina, tanto per dire, perché è invece il tempo-spazio dove si realizza la trasmissione di una tradizione pluricentenaria... Dunque sta' calmino, criticone delle mie scarpe infangate, e guarda aldilà del tempo, ficca il tuo sguardo nella catena delle generazioni passate, evoca il vortice dei tempi e stacci dentro; pensa agli attori di pietra del Sacro Monte, stabilisci continuità verticali e lascia perdere il frastuono dell'attualità...

sabato 6 aprile 2013

Fare le fusa (o fare le feci)?



(da tanto, tanto tempo mi piacerebbe poter leggere un giorno 
un annuncio di tal fatta su un quotidiano, 
un'affiche, una comunicazioncella qual sia sia)




Il giorno 28 di maggio alle ore 18.30 nella libreria "jime52aima"

si presenta il romanzo

"kfuem kdok dha dole" 

di

W X Y


intervengono

Fffaldl Asllsl, Cdjeka4 Bldolapò e Gklsòlf5 Tkandòl

Non sarà presente l'autore. Se ne è capace, farà le veci l'opera sua.

giovedì 4 aprile 2013

Felicità è

ripararsi dalla pioggia sotto il portico di via XII Ottobre dal lato della Rinascente, sbirciare nella bancarella di libri usati e trovare al volo (a cinque euro!) la prima edizione italiana de "Le botteghe color cannella" di Bruno Schulz.

Ero così contento che, con gesto inconsulto, ho comprato anche una copia di "Siddharta"*.

*[però a un euro]

mercoledì 3 aprile 2013

Una sacra rappresentazione

Per le strade solitamente ingombre del traffico che dall'alto novarese fluisce verso la cittadina di Romagnano Sesia e da lì a Novara e alla Valsesia, alle 7 di sera della domenica di Pasqua non fila neanche una bicicletta e gli unici pedoni che incontri sono uomini, e qualche ragazza, inquietamente seduti a tavolini che chiudono lo spazio residuo lasciato libero da lunghe transenne, poste a sbarramento di tutti gli accessi al borgo storico. Ogni tavolino fonda la propria autorità, oltre che su una funzione informativa e d'accoglienza, sul fatto d'innalzare a vista d'occhio – anche d'occhio miope – la richiesta che in fondo ogni lavoro ben fatto eleva legittimamente a chi si appresti a goderne il frutto: il cartello è lì, bene in vista, decisamente assertivo, monito ai distratti e ai forzati delle sagre qualsivoglia basta che siano gratuite: “Ingresso € 8. Gratuito ai bambini sotto i 12 anni”. (Lasciare ai bambini l'illusione che solo alcune cose non abbiano un costo è una tattica pedagogica per rendegli meno traumatica la scoperta che tutto ha un prezzo? Può darsi; ma a me sembra che quel cartello richiami lo spettatore a una sua precisa responsabilità; troppo spesso infatti la gratuità dispone il fruitore al disprezzo, o quantomeno alla scarsa considerazione dell'oggetto offerto...)
“A che ora comincia la rappresentazione?” chiedo a uno degli uomini seduti al tavolino; “alle 8 e mezza”, mi risponde. E basta. Di poche parole il personale volontario con targhette di riconoscimento appuntate ai taschini dei gilet arancione; di poche parole anche l'agente del corpo forestale dello stato che poco prima, all'ingresso del paese, sulla strada statale, sbarrava con transenna e auto di traverso uno degli accessi al centro, e che alla domanda “dove si va per il venerdi santo?” risponde in un unico fiato “per di là si riallacci la cintura signora”, rivolto a mia moglie che, con una certa delicatezza sua propria, sempre sottoposta al rischio di rimanere totalmente incompresa, si era slacciata la sicurezza per sporgersi maggiormente verso l'agente ed evitare così che si frapponessero troppi metri tra la nostra macchina e la sua. Ma una volta riallacciata la cintura e rientrati nel flusso stradale, “per di là” ha perso di colpo ogni significato: questo vuol dire che dovrò tirare a indovinare e imboccare la prima strada che mi ispira. Così anche quello scarno “alle 8 e mezza”, scandito ora dall'omino al tavolo, non mi basta, ma non avendo il coraggio di fare un'altra domanda - anche perché nel frattempo il mio uomo si è rivolto allo sbalordito guidatore di un'auto materializzatasi per incanto dall'asfalto deserto e gli dice quasi urlando “vadi via, vadi di là” - mi sposto al tavolino di un altro punto d'accesso, e lì chiedo a una ragazza: “da dove parte il corteo?” . “Da qui”, mi risponde con un sorriso forzato passandomi un depliant informativo per il quale vorrei tanto ringraziare se non fosse che una maschera dura le scancella di colpo il sorriso dal volto, il che mi consiglia di evitare altre parole e di comprare, piuttosto, i biglietti.

Pago, prendo i tagliandi, entro nell'area deputata – un parcheggio a prato - dove faccio in tempo a vedere un carro attrezzi caricare e portarsi via un'automobile solitaria chiusa nel proprio mutismo di fronte al caragnare del segnale acustico sparato dal carro attrezzi; dopodiché tutto tace e poco si muove nello spiazzo che contiene il palcoscenico: un'ampio prato dove campeggia un villone in stile neoclassico un tempo convitto con tutte le sue stuccature e targhe ad memoriam ben in vista; e tutto tace sul palcoscenico, dove posa un lungo e stretto tavolone coperto da una tovaglia bianca di tela grezza. Fra poco due uomini, uno con barba e incedere montanarino e uno più giovane con barbetta modellata secondo le ultime grida della moda azzeccagarbugli che regna nel guazzabuglio del gusto contemporaneo, entreranno in scena ad apparecchiare la scarna tavolona con ciotole e tonde pan-focacce. Ma prima vedo il palchetto riservato al service audio-luci animarsi di led, e poi uomini indaffarati munirsi di super telescopi fotografici o bazooka del dettaglio che a tracolla o su treppiedi vengono caricati di aspettative e desideri, tanto che qualcuno si avvicina a chiedere dettagli tecnici. Ed ecco i due uomini entrare in scena: il montanaro ha una bella barba da profeta-patriarca, e l'aria intelligentemente torpida di chi reagisce all'emozione con rallentamento voluto di tutti i movimenti. L'altro invece, il più giovane, non trattiene un tremore nel gestire e tradisce una leggera esitazione nel muoversi; ma il profeta lo guarda fermo, e dopo aver terminato di sistemare la tavola gli fa cenno di avviarsi all'uscita. Sono due Apostoli con tunica e saldali - uno, Pietro; l'altro, non ho capito - e si preparano alla recita della 257esima edizione del Venerdi Santo, una sacra rappresentazione che a Romagnano fanno, pare ininterrottamente, dal 1730 coinvolgendo quest'anno più di 300 abitanti del paese a far da comparse e attori e seminando scene in vari luoghi deputati - scelti devo dire assai bene. (continua?)