venerdì 27 aprile 2012

Perché Philip Roth?

 

Quando leggo Philip Roth, scattano delle reazioni chimiche - penso. Ed io sono irretito dalla sua scrittura. Irretito dalla impareggiabile maestria con cui conduce le sue storie (ah, come scrive Roth!, direbbe il pirotecnico Maurizio Mosca, se fosse ancora qui tra noi). E dire che, in verità in verità vi dico, è stato un innamoramento al secondo colpo. Ricordo che mio padre aveva (ha ancora, nemmeno lui sa dove) nella sua libreria un volume del Lamento di Portnoy rieditato dal Club degli editori (mio padre era abbonato al club degli editori, ed io cominciai a pensare alla letteratura contemporanea quando presi a sfogliare il bollettino del club con le tante novità letterarie a prezzi scontati). Doveva essere il 1994, o il 1995. Mi inerpicai al quinto o sesto scaffale e raggiunsi il volume. Aprii e lessi – credo almeno una cinquantina di pagine. Poi piantai lì, perché non trovavo niente che mi interessasse. Allora ero alle prese con la bibliografia pressochè completa di Silone. Con Morselli. Con Steinbeck. Con La Capria. Con Böll. Con Pomilio. Con Flaiano. Con Françoise Sagan. Cioè: ereditavo le letture (o presunte tali: non ho mai verificato) di mio padre e di mia madre. E poi ero interessato alla produzione dei giovani esordienti: Jack Frusciante era fuori (dal gruppo) da poco, e avevo assistito in tv ad un’intervista al giovane Brizzi che mi aveva fatto letteralmente sobbalzare: ecco cosa mi sarebbe piaciuto diventare, accidenti a lui. E Portnoy non mi stuzzicava a dovere. Poi, sempre tramite il club degli editori arrivò – non so come fece mio padre a decidere di comprarlo, visto che non gli riconosco grande conoscenza della poesia – Station Island di Heaney, e così fu amore per la poesia. Perciò smisi di pensare alla narrativa e mi gettai nel magnifico naufragio dei versi. E arriviamo al ’98, quando in casa mia compare Pastorale americana.
Mio padre doveva aver letto qualche recensione, o più probabilmente fu affascinato dalla copertina del supercorallo einaudiano. Pastorale americana. Il libro. E da allora per me Philip Roth è Philip Roth. È da un po’, però, che mi chiedo come mai questo autore possa esercitare su di me tanto fascino. Cioè: perché, anche di fronte all’evidenza, mi sento di difenderlo quando una persona cara dice, a ragione, che alla fine Roth è fallocentrico e tratta le donne dei suoi romanzi come oggetti, cioè fa qualcosa di davvero disprezzabile? Perché insomma sono stato "scelto" da Philip Roth, tanto più dal momento che non c’è niente (proprio niente) nel suo sistema valoriale (il vecchio ha detto e dice no ai figli, no al matrimonio, no alla vita dopo la morte) che ci faccia stare sulla stessa lunghezza d’onda, e suscitare in me una fraterna comunione, il (proibito, ma tanto umano) transfer lettore-scrittore che è alla base di tante altre mie letture? Non c’entrerà forse la mia immancabile agape ambrosiana a farmi amare, al di là di tutto, questa specie di finto misantropo che cura personalmente l’archivio monumentale che la Library of America gli sta erigendo? Io forse so cosa mi fa amare Philip Roth. Vado per sommi capi. Capo a: i suoi incondizionati ed inaspettati rispetto, amore e odio per la famiglia. Anzi, più precisamente il suo incondizionato amore per il racconto dei legami familiari, che può diventare epopea, religione (è lo stesso motivo per cui ho amato molto Le correzioni, e da lì Franzen, e anche e molto quello di Zona Disagio: perciò non sono d’accordo con Edoardo Gino e con il suo ironico e liquidatorio articolo sullo scrittore americano – ma di questo, se ci sarà tempo, parlerò un’altra volta). Capo b: la tendenza di certo Roth a trasformare in qualcosa di eroico tutto ciò che cade sotto il suo sguardo (credo che le pagine finali di Nemesi consegnino alla storia un ritratto epico-malinconico di Bucky Cantor). A farne, per l’appunto, romanzo. Capo c: l’attenzione per la Storia, che corre come una vena carsica lungo tutta la sua produzione (la sua storia che si intreccia con la Storia: anche quella ipotetica del Complotto contro l’America). Capo d: la sua prosa fitta, capace di altalene fra ipotassi e paratassi, la sua prosa tutta digressioni e riprese (ah, le digressioni di Roth!), la sua prosa che è lontana dal bisogno del colpo da maestro, della trovata geniale, del meccanismo narrativo fine a sé, del gusto postmoderno di altri autori che altrettanto amo, e di cui parlerò altrove. In una parola, la sua prosa che ha l'unico obiettivo di raccontare. È ovvio: non tutto Roth è nelle mie corde di lettore. Ma l’autore dello Scrittore fantasma, e soprattutto il secondo Roth, quello dopo Patrimonio, quello della trilogia americana, del Complotto contro l’America e di Operazione Shylock, quello di Everyman, Indignazione e Nemesi, ah, il secondo Roth! (Per inciso. Alla fine ho letto anche Il lamento di Portnoy. Ma la mia opinione non è cambiata. Non è grande come altri).

2 commenti:

  1. Che bella pagina hai regalato al nostro blog, Riccardo! Mi hai ricordato perché American Pastoral mi aspetta da mesi sul tavolo del salotto, in rampa di lancio. Vedrò di rimediare.
    (Mi sembra un ottimo punto di partenza per quel progettino di cui Andrea ci ha parlato via email).
    E sono più che felice di avere finalmente per le mani un sincero estimatore di Franzen. Ironico sì, ma liquidatorio? Sì, anche liquidatorio, hai ragione. Le Correzioni non mi sono proprio andate giù, sentivo la pesantezza della mano di Franzen in ogni frase. C'è troppo autore e troppa poca vita tra quelle pagine, per come la vedo io. Ci sono anche momenti notevoli, lo riconosco, ma non mi basta, voglio di più, specie da uno che dovrebbe essere lassù nell'Olimpo dei narratori. Mi smonti l'idea, per favore? Ho bisogno di confronto.

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