E'
buio. Il prato si è riempito di gente. Sotto i piedi sento il
viscido del terreno fangoso. Non piove. Ha piovuto. L'aria è fredda.
Cerco l'asciutto. Paura di infangare le scarpe. Lasciti infantili. Mi
trovo un posto dove posso mettere i piedi a secco. E' la canalina di
gomma che racchiude la caveria dell'impianto. Non sono il solo
sull'isola di gomma. Ma tra i naufraghi che vi han trovato asilo si
fa finta di niente. Anche se poi formiamo una fila indiana che spicca
nella distribuzione a macchia di leopardo del pubblico nel prato.
Poco
prima avevo scambiato due parole con una signora seduta sulla
panchina di fronte al palchetto del service audio-luci. Parlava al
cellulare. A voce alta. “Sono uscita adesso, guarda... sì lo so
che doveva venire... ma se io le andavo incontro poi mi toccava
pagare per tornare qui... sai che è tutto chiuso no? poi mi fa:
“voglio venire a vedere casa tua”... A me mi stanno sulle balle
quelli che dicono così, no-o? Allora le ho detto di non stare a
disturbarsi. Sì va bé, se vuoi venire io sono al Parco ***. Ciao”.
La signora è una di qui. Saluta l'artigliere, che si è accollato il
bazooka della macchina fotografica telescopica ultima generazione,
mentre questi avanza verso la panchina sbilanciato in avanti da
cotanto impianto: “in Valtellina al fioca” esordisce
l'iperobiettivato, e poi mi guarda come a dire “tu che pensi?”.
Ho infatti commesso l'errore di lanciare uno sguardo smarrito al
bazooka e lui l'avrà preso per un moto d'ammirazione. Mi limito a
mezzosorridere e distolgo lo sguardo.
Finalmente
le luci di scena si levano e illuminano dal basso gli alberi dietro
il tavolo. Belli gli alberi illuminati dai fari teatrali. Sono più
veri. Adesso il tavolo, la scena - si illumina tutto. Poi sento un
“no no no” a mezza voce, mi giro, e c'è uno degli artiglieri sul
palchetto-service che dal giubbetto arancione si sbraccia verso una
serie di fiaccole che hanno cominciato a muoversi e a prendere scena.
Vedo il bianco degli occhi dei portatori di torce mentre torcono lo
sguardo all'indietro nel tentativo di ritirarsi con nonchalance dallo
spazio scenico indebitamente invaso. Ah ecco - dovevano aspettare la
voce fuori campo che ora ci smicrofona altissima nelle orecchie un
prologhino didattico su quello che andremo a vedere tra poco:
l'Ultima Cena. Non si era capito. Coraggio – mi dico - è solo la
prima scena.
In
effetti la prima scena è dura da masticare. Ma c'è l'incanto dello
spazio, degli alberi, degli oggetti illuminati a vita nuova dai
riflettori: mi basta, anche se gli Apostoli stanno seduti come se
fossero a una cena aziendale un pochino noiosa e compunta; indossano
tuniche color terra di una bella stoffa pesante, ma si vede
l'impaccio che provano sotto lo sguardo del pubblico; lungi dal
tenerselo, l'impaccio, e di farlo uscire per quello che è, con la
caratteristica personale che ciascuno di loro possiede nella vita –
come le calate dialettali che sono belle in sé e non vanno corrette
– cercano di nasconderlo recitando, seppelliscono la loro natura
sotto una coltre di presunto savoir faire scenico, così
l'effetto è doppiamente penoso (maledetta televisione!). Devo dire
però che il Gesù e il San Pietro con le loro molto montanine
parlate e i visi impassibili (forse a causa del fondotinta che
imprigiona loro la pelle sotto uno strato brunastro?) hanno un che di
arcaicamente popolare (per quello che può voler dire oggi
quest'espressione): nella pronuncia del Gesù le “v” diventano
quasi tutte “u”, com'è tipico della parlata di queste parti,
avvicinando e addolcendo il personaggio. Così a partire da questo
dettaglio fonico comincia a formarmisi nella testa l'idea che se il
Sacro Monte di Varallo è qui vicino un motivo ci sarà; che forse la
radice di quel meraviglioso teatro di pietra viva sarà sepolta un
po' anche qua dentro, in questa recita che si annuncia lunghissima.
Allora devo dimenticarmi dei microfoni, degli sfrigolii delle casse,
delle voci amplificate che vanno e vengono, e dare invece importanza
al fatto che quando le voci spariscono dall'impianto e ricadono preda
dell'acustica naturale aprono di colpo un mare di suggestioni e
rendono più concreto il dramma, altrimenti solo enunciato; al fatto
che la serietà e la motivazione con cui queste centinaia di persone
hanno lavorato per uno scopo comune - aldilà degli orgogli di
campanile - contiene in sé un che di sacro. Sacro monte, sacro
lavoro comune, sacro stare insieme, sacra fatica, dove forse le
discordie si compongono secondo le tensioni del dramma, e dove le
tensioni personali di quella comunità si possono almeno per un po'
deviare, sospendere, alleviare? Sacra vacanza dall'ossessione
dell'identità e dell'affermazione individuale? Da cui sacro teatro,
sacro recitare, sacro stare ore e ore al freddo per costruire magari
un solo momento memorabile...
Ma gli
occhi sono traditori, è più difficile eludere la loro perenne
malizia e irrequietezza, così che debbo fingere di non notare il
baffo color carne dell'archetto che scava le guance di tutti gli
attori; il trucco pesante sui volti, e insomma dimenticare che quello
che vedo non dovrebbe assomigliare al set di Unomattina, tanto per
dire, perché è invece il tempo-spazio dove si realizza la
trasmissione di una tradizione pluricentenaria... Dunque sta'
calmino, criticone delle mie scarpe infangate, e guarda aldilà del
tempo, ficca il tuo sguardo nella catena delle generazioni passate,
evoca il vortice dei tempi e stacci dentro; pensa agli attori di
pietra del Sacro Monte, stabilisci continuità verticali e lascia
perdere il frastuono dell'attualità...