Una
donna
addormentata in una teca. La teca esposta all'ingresso di un grande
museo di arte contemporanea americano (il Moma di New York). La donna
è un'attrice di cinema piuttosto famosa. La gente fa la fila per
vederla. Il critico di un giornale nazionale italiano polemizza:
morte dell'arte contemporanea. Avevo visto una cosa simile una
ventina di anni fa al Link di Bologna (forse il primo spazio italiano di pura archeologia industriale dove si innestavano sperimentazioni d'arte
concettuale, performance e musica nell'idea fondativa di una comunità
trasversale e digitale all'alba dell'era di Internet): un ragazzo
efebico, bellissimo, nudo, dentro a una teca, dormiva (faceva finta
di), e nella teca, insieme a lui, zampettanti o striscianti lungo e
accanto al giovane corpo, larve, scarafaggi, cavallette, vermi,
ragni, biscie, lucertole. La teca era sistemata in mezzo a una stanza
in penombra mentre, intorno, alcuni monitor televisivi mandavano le
immagini delle ripetute operazioni di plastica facciale cui
un'artista all'epoca famosa amava sottoporsi come forma estrema di
body art. Ora, aldilà della reazione, epidermica o profonda di
ciascuno (per me: repulsione e fascinazione ambiguamente mescolati),
quella cosa dava un'idea di grandezza, di rischio, di messa in gioco
totale, che è, alla fine, quello che si chiede all'artista: fare
arte sulla propria pelle. So che la mia suonerà come un'affermazione provocatoria: ma come negare che una buona parte del fascino
che emanano Van Gogh e Rimbaud provenga dalla performance di body
art ante-litteram del primo quando si taglia l'orecchio, e dalla
pistolettata a Verlaine o, in generale, dallo stravolgimento di tutti
i sensi praticato e teorizzato dal secondo? Un'artista esplora i
limiti. Ecco, allora, l'insopportabile sapore di mistificazione
ipocrita di fronte a un'operazione come quella del Moma: al posto
della grandezza nessun rischio, nessun coraggio, bassa furberia
commerciale, senso distorto del gioco, strategia di marketing che si
mangia il progetto artistico, equivoco ammiccamento al gusto mainstream
scambiato per citazionismo della cultura pop, e altro ancora. Del
resto, è quello che vedo in molta dell'arte contemporanea nella
quale m'imbatto. Dell'artista coraggioso e provocatorio rimane una
penosa parvenza: dalle opere s'intravede l'accorto amministratore di
se stesso, della propria immagine, il tour operator del proprio mondo
autoreferenziale. Il sentimento della realtà sparisce sotto la
coltre del concetto e il concetto è già sparito da tempo sotto la
cappa dell'autoesibizione o dell'intenzione allo stato puro. Ci
vorrebbero artisti che si immolano.
(pubblicato sul periodico Ecorisveglio)
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RispondiEliminaPer quel pochissimo che conosco l'arte contemporanea, credo che sconti le stesse afflizioni di altre consorelle; gli anni 70, diciamocelo, è lì che finisce il 900, i suoi ultimi colpi di coda (che tali furono le neoavanguardie). Poi come avviene anche in letteratura si rimastica, si rimpiallaccia, per carità con esiti anche assai felici. Nell'arte contemporanea poi vige lo strapotere dei galleristi e dei critici d'arte (come editori e critici letterari) che fanno salire e scendere le quotazioni. L'arte concettuale, spesso performativa, degli ultimi anni non mi ha mai granché suggestionato. Viaggia tra provocazione gratuita e ripetizione usurata, senza quel sangue di cui tu parli, quel mettersi in gioco. Nell'arte contemporanea secondo me, in quanto arte materica (rispetto all'immaterialità della parola) la discrepanza è ancora più visibile. Nel 1995 andai con scettico entusiasmo a vedere la mia prima biennale; c'era un'istallazione, dove entravi in uno stanzone scuro, una macchina distributrice di coca-cola e punto. Titolo: "grazie per tutta la coco-cola che ci avete donato". Per carità sarcasmo sociale, quello che vuoi tu, però...nella stessa esposizione vidi per la prima volta Anselm Kiefer, che ho rivisto anni dopo. Ecco, qui la cosa è assai diversa; c'è consapevolezza di ciò che si fa e perché, usare mezzi spesso vetusti senza essere passatista.
RispondiEliminaAnch'io non sono un intenditore, Danilo, ma sono abbastanza allenato a percepire il puzzo di fumo quando l'arrosto non c'è più.
RispondiEliminaA meno che esista qualcuno per cui, come per la Donna (secondo il Gaddus), il fumo non sia un gradevole presagio dell'arrosto...
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