domenica 30 settembre 2012

Vengo al tuo castello per essere


Vengo al tuo castello per essere
morso dai cani.
I balzi di quei mostri e il lancio finale,
una furia latrando, un volo di qualche metro e non sbagliano,
affondano nella carne e strappano col loro peso,
mi sono accorto è quello che ho sempre cercato
e che prima chiamavo amore, felicità, fortuna.

(Cesare Viviani)

martedì 25 settembre 2012

In morte di un poeta

Il cerchio mi pare definitivamente chiuso – con disperante e anche un po' comica autoreferenzialità. Mi spiego. Dopo gli anni in cui sembrava che la poesia, secondo la vulgata più diffusa da certo giornalismo generalista impettito e sornione, si fosse tutta trasferita dalle parti del cantautorame italiano, che collocava De André sull'olimpo della hit parade poetica del contemporaneo; dopo che intellettuali prestati alla pop song avevano salutato come eredi del poeta di Recanati paraculi e furbetti autori di canzoncine rimate come filastrocche ebeti, e sulla scorta di ciò addirittura inventato un premio, confermando in tal modo il carattere di “borgo selvaggio” già attribuito ai suoi tempi dal sommo recanatese al paese poi sede del famigerato anzidetto premio; dopo aver sentito per anni usare la parola “poeta” sempre in senso traslato (anche il macellaio era un Poeta della bistecca, secondo certo giornalismo “critico”) come di colui che si occupava di creare immaginette non troppo lontane dal senso comune e dallo spirito dei tempi in modo da non dare eccessivo fastidio, e d'altro canto, non così vicine ai valori (o dis-valori) dell'epoca da scomparire, come sarebbe stato giusto, nel mainstream della banalità multifunzionale; dopo che schiere di sedicenti critici musicali hanno provato l'ebbrezza di assumere i panni del critico letterario intento alle analisi più fini dei testi del cantautorame italiano, e mentre un altro lembo di ciò che si usa chiamare “poetico” rimaneva impigliato nell'industria della nostalgia alimentare prodotta dai biscottini dei bei tempi andati che dipinge i mulini di bianco – o meglio ne ridipinge solo le facciate perchè rimanga ben nascosta la ruvida concretezza di un mestiere e di una macchina niente affatto “poetici”; infine, dopo che - udite udite! - il più sopravvalutato e insulso di questi finti poeti dalle sei corde, alle soglie della decrepitezza fisica, come pentito di aver preso per i fondelli nei decenni tutti i devoti baciapile dell'autorale corte canzonettistica italiana, è cioè Francesco De Gregori, ha dichiarato (durante l'ultimo festival del Cinema di Venezia mi sembra), di non essere mai stato un poeta, e dare così un soffio di speranza all'eventualità che la grande truffa dell'italico pop song d'autore venisse finalmente smascherata ed emergesse la ridicolaggine di quanto sostenuto per anni, ecco invece prodursi improvviso un evento che rimette in funzione la grande truffa con nuove, dolci attrattive. Un evento attraverso cui pare aprirsi la nuova era in cui i poeti veri potranno sperare nel riconoscimento sommo esclusivamente in qualità di autori dei testi delle canzoni di un qualsiasi cantautore celebre (o del più celebre dei cantautori qualsiasi). Il mirabile evento si è prodotto per mano di un giornalista, di cui pardon non ricordo il nome, in un pezzo pubblicato su La Stampa qualche giorno fa. L'occasione del pezzo, la morte del poeta Roberto Roversi. Con una torsione notevole del senso e del destino di un'intera vita spesa per la poesia (vera) e per i libri (veri) che ha fatto di Roversi un maestro appartato ma non meno presente sulla scena della poesia italiana contemporanea, e dopo aver dedicato solo le prime righe e poi più nulla al risibile fatto che il poeta fu animatore insieme a Pasolini, Leonetti, Fortini, Romano, Scalia della rivista Officina, il cronista dedica gran parte del pezzo all'incontro, cardine di tutta la poesia italiana più recente, tra Roversi e il cantautore felsineo Lucio Dalla. Talmente importante e decisivo appare, agli occhi del cronista, l'incontro fatale e la frequentazione artistica tra i due – in verità piuttosto breve nel tempo se paragonata alla lunga vita di Roversi, spentosi all'età di 89 anni – da ispirare all'estensore dell'articolo una spericolata intuizione - che verrà certamente ripresa da tutte le storie letterarie future come esempio del vincolo profondo che la poesia sa creare nei suoi sacerdoti più puri. L'intuizione sarebbe tutta contenuta nella stuporosa, meditabonda e commossa constatazione che il vecchio poeta se n'è andato – ma guarda il caso! - proprio pochi mesi dopo la morte del caro e compianto autore di “Caruso”. Del resto, si sa, tutti i legami forti conoscono questo tipo di destino. Uno dei due muore e dopo pochi mesi – paf! - tocca all'altro. La vogliamo smettere con il solito, frusto sport del cinismo, con il consueto happy hour dello snobismo e vedere finalmente con un po' più di lucidità come stanno veramente le cose? Possibile che non si voglia fare il minimo sforzo per sottoscrivere e diffondere una verità tanto evidente? Eppure il fatto è sotto gli occhi di tutti: Roberto Roversi è stato il paroliere di Lucio Dalla - punto e basta!

sabato 22 settembre 2012

Anch'io

Uno dei tanti, anch'io.
Un albero fulminato
dalla fuga di Dio.

(Giorgio Caproni)

martedì 11 settembre 2012

Bella addormentata, bel segnale


Serata civica e d'arte ieri al cinema Anteo di Milano. Prima un dibattito, presente Marco Bellocchio introdotto dagli assessori alla cultura e alle politiche sociali, che hanno aggiornato lo status della proposta di legge comunale sul registro fine vita, e poi la proiezione del film. Bellocchio ha saputo in due ore, intense, senza una sbavatura, condensare una delle pagine più nere, tristi della storia repubblicana di questo Paese, che si consumarono nel febbraio di tre anni e mezzo fa. Senza concessioni retoriche, senza partigianerie fegatose, ha ritratto le pulsioni e le isterie che si animarono in quei giorni, le opposte posizioni. Nel centro, in virtù di due mostri sacri, che da soli potrebbero fare il film, il secondo anche senza bisogno di parola, come Tony Servillo e Roberto Herlizka, le smanie, le piccinerie di una classe politica, che quando non riesce a non essere corrotta e incapace, non può fare a meno di essere ipocrita, pervertita e bacchettona, asservita alle voglie di consenso elettorale, disposta per questo a fare a pezzi la dignità delle persone e con loro i fondamenti repubblicani e laici della nostra costituzione. Spicca la sapiente, febbrile resa di Maya Sansa, giovane tossica davanti a un Piergiorgio Bellocchio medico taciturno ma determinato. Immagini nitide, scolpite, un uso saggio degli specchi nella casa della diva fattasi santa al capezzale della 'bella addormentata', che è Isabelle Hupert. Veri gioielli il discorso senza spettatori del senatore Tony Servillo e la grottesca sauna dove Herlizka-psicologo dispensa perle sulla condizione dei nostri politici con un tocco di leggerezza possente, un sorriso e una intensità talmente profondi che pare di averlo davanti a teatro e non carcerato dentro una pellicola. Poco prima dell'inizio della proiezione, tra l'altro, l'assessore alla cultura ha comunicato che alcuni minuti prima Bellocchio aveva ricevuto una telefonata di congratulazioni da parte di Napolitano, all'epoca strapazzato da molti politici per la sua condotta. Che altro dire: "Bella addormentata" è davvero un bel segnale. Di cinema, certo, ma non solo.

domenica 9 settembre 2012

Florilegio

Hanno detto che l’Italia può riparare, se anche manchi questa occasione che le è data; la potrà ritrovare. Ma noi, come ripareremo?
Invecchieremo falliti. Saremo la gente che ha fallito il suo destino. Nessuno ce lo dirà, e noi lo sapremo; ci parrà d’averlo scordato, e lo sentiremo sempre; non si scorda il destino.
E sarà inutile dare agli altri la colpa. A quelli che fanno la politica o che la vendono; all’egoismo stolto che fa il computo dei vantaggi, e cerca nel giornale quanti sono stati i morti; ai socialisti ed a Giolitti, ai diplomatici o ai contadini. La colpa è nostra, che viviamo con loro. Esser pronti, ognuno per suo conto, non significa niente; essere indignati, disgustati, avviliti è solo una debolezza. La realtà è quella che vale. Anche la disgrazia è un peccato; e il più grave di tutti, forse.
Fra mille milioni di vite, c’era un minuto per noi; e non l’avremo vissuto. Saremo stati sull’orlo, sul margine estremo; il vento ci investiva e ci sollevava i capelli sulla fronte; nei piedi immobili tremava e saliva la vertigine dello slancio. E siamo rimasti fermi. Invecchieremo ricordandoci di questo. 
Noi, quelli della mia generazione, che arriviamo adesso al limite, o l'abbiamo passato da poco; gente sciupata e superba. Chi dice che abbiamo spesa male la nostra vita, senza costruire e conquistare? Eravamo ricchi di tutto quello che abbiamo buttato; non avevamo perduto neppure un attimo dei giorni che ci son passati come l'acqua fra le dita. Perché eravamo destinati a questo punto, in cui tutti i peccati e le debolezze e le inutilità potevano trovare il loro impiego. Questo è il nostro assoluto. È così semplice!
Non siamo asceti né fuori del mondo. Vivere vogliamo e non morire. Anche se ci tocchi quello che non si può scansare col corpo, e che è sempre vita, quando lo incontriamo camminando per la nostra strada. Non abbiamo paure né illusioni. Non aspettiamo niente. Sappiamo che il nostro sacrificio non è indispensabile.
 
Renato Serra, Esame di coscienza di un letterato

venerdì 7 settembre 2012

Un mese dopo

A beneficio di chi conservasse memoria del mio post del 7 agosto, e del relativo commento di Tiziano Scarpa, comunico che la mia amica è tornata dalle ferie (me l'aspettavo più abbronzata) e mi ha restituito "Sinapsi. Opere postume di autore ancora in vita" di Matteo Galiazzo (Indiana).
Ho riletto la prefazione di Tiziano Scarpa; e continuo a reputarla brutta.
Bisogna dire che sia io che Scarpa - in quel post - non abbiamo spiccato per cavalleria.
Io per primo, giocando di subdoletta iperbole (ho definito la sua prefazione "la peggiore della storia della letteratura" senza degnarmi di motivare il mio giudizio).
Lui subito dietro, estrapolando un brano minimo - a suo avviso esemplare - dalla prefazione; dopodiché, a dire il vero, si è portato in vantaggio per due a uno, rivolgendosi agli eventuali lettori del blog.
Ora, io credo che sarebbe stato più corretto - prima da parte mia, poi da parte di Tiziano - riportare per intero la prefazione.
Ho sotto gli occhi il libro. La prefazione è lunga cinque pagine, che non ho alcuna voglia di trascrivere. Se per caso (cioè: eventualmente) Tiziano Scarpa leggesse questo post e volesse provvedere lui (immagino che abbia un file del pezzo), gliene sarei grato.
Viceversa, pazienza: vanitas vanitatum et omnia vanitas.

martedì 4 settembre 2012

Cose strane accadono

C'è una cosa che non capisco (una sola?). Prendete, diciamo, uno scrittore trentenne che esordisca negli anni sessanta o settanta con case editrici di grosso nome, riceva nutriti consensi della critica, vinca premi editoriali, o letterari che dir si voglia, di altrettanto peso, collabori stabilmente con case editrici quotate e quotidiani nazionali di grido, uno insomma che si direbbe arrivato (dove, non so, comunque arrivato punto). Bene, immaginate che costui, o costei, scriva su quegli stessi quotidiani lamentandosi con rabbia o disincanto di non poter diventare un insegnante della scuola pubblica. Chiamereste la neuro? Bene, giovani scrittori odierni nelle predette condizioni fanno ciò (vedi un Christian Raimo o una Silvia Avallone).
Non capisco, continuo a non capire. Sarà che da ieri è ricominciato il circo delle prove di recupero di settembre con un po' di versioncine di latino da emendare, sarà che sono da svariati anni ormai un dipendente proprio di quella scuola pubblica così estaticamente evocata, ma costoro immagino che non abbiano idea di cosa sia la scuola pubblica oggidiana; lasciamo stare i famigerati tagli, l'ammazza-ammazza delle inutili riforme, ma vincere il concorso e diventare insegnante, come a me è capitato, per entrare nella grande giostra di questo pastrocchio abbandonato a se stesso, accettare l'ergastolo della prostituzione del sé per anni e anni con una magrissima pensioncina in chiusa, se mai ci sarà, è davvero così ambito per scrittori d'acclarata fama? Un mestiere socialmente svalutato, economicamente svantaggioso vale così tanto per costoro?
E dall'altra parte orde di insegnanti pubblici, che hanno questa grande fortuna, che vorrebbero fare l'opposto, cioè a dire schiere di anonimi scribi, periferici, emarginati, sfigati, biliosi che direbbero: prego, facciamo a cambio. Ricordo un collega anni fa che mi diceva un po' lagnoso: "guarda lo scrittore Tizio, solo cinque anni s'è fatto nella scuola pubblica e adesso...io sono ventisei anni che sto qua, ormai". Lo consolavo, un po' carognescamente ne convengo, dicendogli: vedrai, prima della pensione. E' andato in pensione da qualche anno e ancora niente. Cose strane davvero accadono al mondo.