Il
cerchio mi pare definitivamente chiuso – con disperante e anche un
po' comica autoreferenzialità. Mi spiego. Dopo gli anni in cui
sembrava che la poesia, secondo la vulgata più diffusa da certo
giornalismo generalista impettito e sornione, si fosse tutta
trasferita dalle parti del cantautorame italiano, che collocava De
André sull'olimpo della hit
parade poetica del
contemporaneo; dopo che intellettuali prestati alla pop
song avevano salutato
come eredi del poeta di Recanati paraculi e furbetti autori di
canzoncine rimate come filastrocche ebeti, e sulla scorta di ciò
addirittura inventato un premio, confermando in tal modo il carattere di “borgo
selvaggio” già attribuito ai suoi tempi dal sommo recanatese al
paese poi sede del famigerato anzidetto premio; dopo aver sentito
per anni usare la parola “poeta” sempre in senso traslato (anche
il macellaio era un Poeta della bistecca, secondo certo giornalismo
“critico”) come di colui che si occupava di creare immaginette
non troppo lontane dal senso comune e dallo spirito dei tempi in modo
da non dare eccessivo fastidio, e d'altro canto, non così vicine ai
valori (o dis-valori) dell'epoca da scomparire, come sarebbe stato
giusto, nel mainstream
della banalità multifunzionale; dopo che schiere di sedicenti
critici musicali hanno provato l'ebbrezza di assumere i panni del
critico letterario intento alle analisi più fini dei testi del
cantautorame italiano, e mentre un altro lembo di ciò che si usa
chiamare “poetico” rimaneva impigliato nell'industria della
nostalgia alimentare prodotta dai biscottini dei bei tempi andati che
dipinge i mulini di bianco – o meglio ne ridipinge solo le facciate
perchè rimanga ben nascosta la ruvida concretezza di un mestiere e
di una macchina niente affatto “poetici”; infine, dopo che - udite
udite! - il più sopravvalutato e insulso di questi finti poeti dalle
sei corde, alle soglie della decrepitezza fisica, come pentito di
aver preso per i fondelli nei decenni tutti i devoti baciapile
dell'autorale corte canzonettistica italiana, è cioè Francesco De
Gregori, ha dichiarato (durante l'ultimo festival del Cinema di
Venezia mi sembra), di non essere mai stato un poeta, e dare così un
soffio di speranza all'eventualità che la grande truffa dell'italico
pop song
d'autore venisse finalmente smascherata ed emergesse la ridicolaggine
di quanto sostenuto per anni, ecco invece prodursi
improvviso un evento che rimette in funzione la grande truffa con
nuove, dolci attrattive. Un evento attraverso cui pare aprirsi la
nuova era in cui i poeti veri potranno sperare nel riconoscimento
sommo esclusivamente in qualità di autori dei testi delle canzoni di
un qualsiasi cantautore celebre (o del più celebre dei cantautori
qualsiasi). Il mirabile evento si è prodotto per mano di un
giornalista, di cui pardon non ricordo il nome, in un pezzo
pubblicato su La Stampa qualche giorno fa. L'occasione del pezzo, la
morte del poeta
Roberto Roversi. Con una torsione notevole del senso e del destino di
un'intera vita spesa per la poesia (vera) e per i libri (veri) che ha
fatto di Roversi un maestro appartato ma non meno presente sulla
scena della poesia italiana contemporanea, e dopo aver dedicato solo
le prime righe e poi più nulla al risibile fatto che il poeta fu
animatore insieme a Pasolini, Leonetti, Fortini, Romano, Scalia della
rivista Officina, il cronista dedica gran parte del pezzo
all'incontro, cardine di tutta la poesia italiana più recente, tra
Roversi e il cantautore felsineo Lucio Dalla. Talmente importante e
decisivo appare, agli occhi del cronista, l'incontro fatale e la
frequentazione artistica tra i due – in verità piuttosto breve nel
tempo se paragonata alla lunga vita di Roversi, spentosi all'età di
89 anni – da ispirare all'estensore dell'articolo una spericolata
intuizione - che verrà certamente ripresa da tutte le storie
letterarie future come esempio del vincolo profondo che la poesia sa
creare nei suoi sacerdoti più puri. L'intuizione sarebbe tutta
contenuta nella stuporosa, meditabonda e commossa constatazione che il vecchio poeta se n'è andato – ma guarda il
caso! - proprio pochi mesi dopo la morte del caro e compianto autore
di “Caruso”. Del resto, si sa, tutti i legami forti conoscono
questo tipo di destino. Uno dei due muore e dopo pochi mesi – paf!
- tocca all'altro. La vogliamo smettere con il solito, frusto sport
del cinismo, con il consueto happy
hour dello snobismo e
vedere finalmente con un po' più di lucidità come stanno veramente
le cose? Possibile
che non si voglia fare il minimo sforzo per sottoscrivere e
diffondere una verità tanto evidente? Eppure il fatto è sotto gli
occhi di tutti: Roberto Roversi è stato il paroliere di Lucio Dalla
- punto e basta!
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Anche se la circostanza ed il modo come i giornali e l’informazione in genere ci hanno parlato di Roversi e di conseguenza hanno offerto –giustamente- spunti polemici in abbondanza…non mi pare opportuno insistere, arrabbiarsi, perdere le staffe… Non serve.
RispondiEliminaPerché non ricordiamo invece con una poesia o con un saggio critico non particolarmente dotto e solo per addetti ai lavori il grande poeta? Io ci provo.
Diceva R. Roversi: "Non si dà letteratura se non si è ben dentro, con piedi, mani, braccia, naso, occhi e orecchie, nella società. Nel quotidiano, per la strada, anziché dentro alle stanze con le finestre chiuse"
(Dall’intervista rilasciata a Carlo Ruggiero,2005.)
MI FERMO UN MOMENTO A GUARDARE
Non correre. Fermati. E guarda.
Guarda con un solo colpo dell’occhio
la formica vicino alla ruota dell’auto veloce
che trascina adagio adagio un chicco di pane
e così cura paziente il suo inverno.
Guarda. Fermati. Non correre.
Tira il freno alza il pedale
abbassa la serranda dell’inferno.
Guarda nel campo fra il grano
lento e bianco il fumo di un camino
con la vecchia casa vicina al grande noce.
Non correre veloce. Guarda ancora.
Almeno per un momento.
Guarda il bambino che passa tenendo la madre per mano
il colore dei muri delle case
le nuvole in un cielo solitario e saggio
le ragazze che transitano in un raggio di sole
il volto con le vene di mille anni
di una donna o di un uomo venuti come Ulisse dal mare.
Fermati. Per un momento. Prima di andare.
Ascoltiamo le grida d’amore
o le grida d’aiuto
il tempo trascinato nella polvere del mondo
se ti fermi e ascolti non sarai mai perduto.
E nella quarta delle Trenta miserie si legge un inciso inatteso, che sembra un programma, un compito per chi resta, e che propone una dimensione non consueta di Roversi, quasi una esplicita volontà di testamento, la consapevolezza che la poesia non è un fatto privato e che, forse, per chi resta, non ci sia altro che ostinatamente continuare...:
Parlare continuare a parlare senza sapere come parlare
scrivere continuare a scrivere senza sapere come scrivere
pensare continuare a pensare non sapendo cosa pensare e
continuare a voler sapere senza sapere che cosa sapere.Roberto Roversi
da M.Grazia Ferraris
Hai ragione Maria Grazia. Meglio lasciare la bile al suo posto. Per rimediare rimando a un link dove è ancora un poeta (Giuliano Scabia) a parlare del poeta Roversi.
EliminaSaluti
http://www.doppiozero.com/materiali/editoriale/un-poeta
Sono d'accordo, Franco. Il problema è il solito, dare alle cose (scritte) il peso che meritano. Non credo si possa pretendere che il pubblico più ampio possa comprendere quale sia la buona e quale la cattiva poesia. O meglio, quale sia la poesia e quale la canzonetta, la roba finta o proprio la schifezza che va a capo ("Oggi per essere un poeta basta andare a capo", dice giustamente Giuliano). Io stesso ho spesso grosse difficoltà a rendermene conto, come immagino tutti noi, almeno qualche volta.
RispondiEliminaD'altronde è il prezzo da pagare se si vuole un'informazione democratica, no? Che bel mondo sarebbe se tutti, proprio tutti avessero una consapevolezza letteraria di qualche genere, autentica... Più buono, sarebbe. E più giusto.
Sì però parliamo di un quotidiano come La Stampa, e nelle pagine della cultura. In quel contesto non sarebbe così strano pretendere un po' più di competenza e un po' meno faciloneria, non trovi?
Elimina