Questo post(illo) nasce da uno scambio di mail interno alla redazione, su sollecitazione di Marco, che ci ha girato una recensione di Luca Cristiano al saggio di Mazzoni "Teoria del romanzo" apparsa su nazione indiana qualche settimana fa. Ho buttato giù qualche appunto partendo dalla premessa che il saggio non l'ho letto e che la recensione me l'ha fatto apprezzare nelle parti contestate (per la serie: 'non l'ho letto e mi piace'). Nello spirito di questo blog metto qui l'appunto e qualche (s)proposito che ne segue, perché sia condiviso da chi passa da queste parti, redattore e non.
Pur non avendo letto il saggio di Mazzoni, ne condivido l'assunto e contrario, proprio in ragione delle critiche che gli muove il recensore. La visione che trasuda da questa recensione m'appare viziata da un certo misticismo urticante (quello
degli -ibili: indicibile, irriducibile, incommensurabile) di contro magari al dogmatico relativismo nichilistico nicciano-schopenaueriano imputato a Mazzoni e da un sottofondo di
ribellismo di maniera, una qualche pasolinismo ieratico che non a caso trova ospitalità su "Il primo
amore" in ragione del circuito Moresco-Carla Benedetti et similia.
Il fuoco della critica è che Mazzoni nella sua analisi avrebbe escluso dal canone romanzesco occidentale i marginalia, le periferie romanzesche che provano ancora a esprimere un'ansia titanico-epica-rivoluzionaria e non accettano o non assimilano la natura monadica, seriale dell'individuo come oggetto irrilevante, cioè quotidiano e ripetitivo (non viene portato alcun esempio/prova a dimostrazione di ciò, fra l'altro, di fronte a un saggio, pare, corposo e documentato per stessa ammissione del recensore). Ora l'articolista suggerisce invero qualcosa abbastanza banalotto, un po' scontato: qualsiasi narratore moderno vero (animato da genuina dedizione e non da commercialismo scribacchino ecc.) cela nel tessuto del narrato un'ansia irrisolta di titanica cosmogonia (altrimenti non scriverebbe affatto), quella nostalgia di un mondo abbandonato dagli dei e dagli eroi di cui Lucacks parlava giusto un secolo fa nel suo testo omonimo e che Mazzoni celebra citandolo e (credo) allargandone i contenuti. Tale ansia inesausta e vanificata esiste, è vero, in molta narrativa degli ultimi due secoli (Joyce come Dostoevskij ne sono l'archetipo per distorsione oppositiva), ma partendo da un assunto sottotraccia, che forse Mazzoni avrà enucleato: l'impronta genetica parodica del romanzo moderno, come procedura che non può credere fino in fondo senza un sussulto di timore o vergogna a un'idea di eroismo, titanismo tout court pur osando circumnavigarla magari con genuino coraggio. Quanto a esistenze irriducibili, non seriali è come se la critica partisse da un accezione negativa di serialità, come a dire: omologate, piatte, grigie, consenzienti. C'è serialità nella sovversione come nella piaggeria, la letteratura è un fatto esso stesso seriale, un palinsesto sempre-verde e credo che Mazzoni per seriale ritenga ovviamente la non possibilità di una dimensione eroica dell'esistenza moderna, cosa acclarata. Che il romanzo si ponga come un'istanza di democratizzazione culturale rappresenta non una sbrigativa reductio ad unum della complessità, ma la naturale garanzia di coesione di spinte diverse, alternative, opposte, da quelle omologanti a quelle disturbanti, rivoluzionarie, che in contesti non democratici non avrebbero alcuna possibilità d'esistere. E se la modernità sta proprio oggi mutando pelle (o tramontando), il romanzo, che è la forma letteraria più plastica mai inventata, ne saprà accogliere le istanze. Ma il dato codificato dal canone moderno per ora è quello.
Detto ciò, questo articolo m'ha stimolato a proporre due idee per il Clavilegno, la nostra rubrica di narrativa.
1) Una serie di inteviste a piccoli editori coraggiosi (o presunti tali) non a pagamento ovvio, per interrogarli a valle sull'intero processo di creazione del libro, della sua filiera coi punti deboli, le ambiguità. Si potrebbe stendere un formulario da condividere, provare a stilare una lista ipotetica di editori interpellandi, partendo dall'assunto di indagare in merito al romanzo il nesso editoria-mercato-prodotto culturale che è tema annoso da tempo.
Il fuoco della critica è che Mazzoni nella sua analisi avrebbe escluso dal canone romanzesco occidentale i marginalia, le periferie romanzesche che provano ancora a esprimere un'ansia titanico-epica-rivoluzionaria e non accettano o non assimilano la natura monadica, seriale dell'individuo come oggetto irrilevante, cioè quotidiano e ripetitivo (non viene portato alcun esempio/prova a dimostrazione di ciò, fra l'altro, di fronte a un saggio, pare, corposo e documentato per stessa ammissione del recensore). Ora l'articolista suggerisce invero qualcosa abbastanza banalotto, un po' scontato: qualsiasi narratore moderno vero (animato da genuina dedizione e non da commercialismo scribacchino ecc.) cela nel tessuto del narrato un'ansia irrisolta di titanica cosmogonia (altrimenti non scriverebbe affatto), quella nostalgia di un mondo abbandonato dagli dei e dagli eroi di cui Lucacks parlava giusto un secolo fa nel suo testo omonimo e che Mazzoni celebra citandolo e (credo) allargandone i contenuti. Tale ansia inesausta e vanificata esiste, è vero, in molta narrativa degli ultimi due secoli (Joyce come Dostoevskij ne sono l'archetipo per distorsione oppositiva), ma partendo da un assunto sottotraccia, che forse Mazzoni avrà enucleato: l'impronta genetica parodica del romanzo moderno, come procedura che non può credere fino in fondo senza un sussulto di timore o vergogna a un'idea di eroismo, titanismo tout court pur osando circumnavigarla magari con genuino coraggio. Quanto a esistenze irriducibili, non seriali è come se la critica partisse da un accezione negativa di serialità, come a dire: omologate, piatte, grigie, consenzienti. C'è serialità nella sovversione come nella piaggeria, la letteratura è un fatto esso stesso seriale, un palinsesto sempre-verde e credo che Mazzoni per seriale ritenga ovviamente la non possibilità di una dimensione eroica dell'esistenza moderna, cosa acclarata. Che il romanzo si ponga come un'istanza di democratizzazione culturale rappresenta non una sbrigativa reductio ad unum della complessità, ma la naturale garanzia di coesione di spinte diverse, alternative, opposte, da quelle omologanti a quelle disturbanti, rivoluzionarie, che in contesti non democratici non avrebbero alcuna possibilità d'esistere. E se la modernità sta proprio oggi mutando pelle (o tramontando), il romanzo, che è la forma letteraria più plastica mai inventata, ne saprà accogliere le istanze. Ma il dato codificato dal canone moderno per ora è quello.
Detto ciò, questo articolo m'ha stimolato a proporre due idee per il Clavilegno, la nostra rubrica di narrativa.
1) Una serie di inteviste a piccoli editori coraggiosi (o presunti tali) non a pagamento ovvio, per interrogarli a valle sull'intero processo di creazione del libro, della sua filiera coi punti deboli, le ambiguità. Si potrebbe stendere un formulario da condividere, provare a stilare una lista ipotetica di editori interpellandi, partendo dall'assunto di indagare in merito al romanzo il nesso editoria-mercato-prodotto culturale che è tema annoso da tempo.
2) Andare invece a monte del processo di facitura del romanzo e nello spirito letterale di Atelier interrogare dei romanzieri (non come intervista che urta il romanziere, lo abbiamo visto già nel libro di Atelier sui famosi 'carotaggi della narrativa dell'oggidì') perché offrano un breve contributo sulla loro officina creativa. Come dire: invece di sproloquiare a vuoto sulla propria idea di romanzo, con teorie che finiscono sempre per farsi dogmatiche o mistiche, opinabili e magari meno interessanti rispetto a chi racconta il suo romanzare in prima persona, rivelare la teoria dalla prassi, proprio a partire da come si pongono di fronte alla procreazione romanzesca: procedure, tic, tecniche, revisioni, ripensamenti ex post e ex ante, delusioni, ripescaggi, sottili tramature che spesso non si rivelano neppure in confessione. Insomma tutto l'armamentario che fa il romanzo e identifica il suo padre 'virtuale' a partire dall'atto della fecondazione e della gestazione. Che quando il romanzo è partorito l'ultimo a doverne parlare è proprio chi l'ha scritto.
Ti lascio un elenco di piccoli editori che mi piacerebbe venissero interpellati, qualora partisse la prima idea. Di alcuni non conosco pienamente la realtà (magari fanno anche libri a pagamento, per dire), ma si tratta di piccoli-grandi editori che seguo: Iperborea, Instar, Italic(peQuod), Isbn, Cavallo di Ferro, Mattioli 1885, Alet, Cargo, Nutrimenti, forse anche Barbera, Il Maestrale e Perrone. Giusto per avere qualche nome da cui partire - ne avrò dimenticato di certo qualcuno - tentando di stare, se ci ho azzeccato un poco, sulla lunghezza giusta per intercettare quello che ci interessa.
RispondiEliminaIntanto si potrebbe partire da ciò che ciascuno di noi conosce direttamente. Io per esempio posso provare a coinvolgere Alberto Gaffi (Gaffi editore) e Alessandro Orlandi (La Lepre edizioni) due piccoli editori romani incontrati sul mio cammino. Tra quelli che citi, Iperborea pubblica narrativa italiana? Perrone e Isbn so che hanno qualche peccato pubblicatorio-monetario o no? In ogni caso sia per la prima che per la seconda idea sarebbe interessante sapere cosa ne pensa anche il resto della redazione. Cioè se è un progetto condiviso e da condividere, utile al disegno complessivo o solo un mio bisogno. In tal caso dovremmo provare a stilare una lista di editori a partire da qualche cardine: editore piccolo che abbia una data di nascita non anteriore a...che so 2000/1995? Perché se è sul mercato da almeno vent'anni si presume si sia ingrandito tanto da non essere più piccolo, almeno nel nome...a me piacerebbe pensare a un editore che pensi di nascere col nuovo millennio come sfida impossibile, assurda (2000 in poi) Poi che pubblichi (anche) narrativa italiana esordiente (e non), e stilare un formulario di massimo 5 quesiti da sottoporre. Condiviso questo, in due o tre possiamo smazzarci la lista degli editori da contattare e seguire via mail in modo da confezionare due/tre puntate da inserire sulla rivista.
Elimina(questa procedure vale anche per il punto due, ovvio)
Redazione, che ne pensate?
Mi preme partire dai punti proposti da D.L., ché in un secondo post fornirò alcune mie teorizzazioni che lascino il tempo che trovano e pertanto possano essere saltate a piè pari.
RispondiEliminaQuel che riguarda gli editori non mi trova particolarmente preparato, posso però far notare che nessuno di loro possa o debba esimersi dal partecipare a un’inchiesta proposta da una bella rivista impegnata come “Atelier”: in ogni caso rappresenterebbe una buona promozione per la loro produzione: bisogna mettere in conto uno scambio di favori, semmai. La lista di chi pubblica, le case editrici appunto, andrebbe attentamente vagliata prendendo in considerazione la qualità del catalogo e dell’impegno nel proporre opere di vero contenuto letterario (vedete voi quali potrebbero essere i migliori criteri). C’è da chiedersi poi se l’editore stesso possa indicare qualche autore meritevole, cercando di evitare la pura mercificazione dei libri (so che siete particolarmente attenti su questo). Saranno pure banalità…
Sulla seconda argomentazione, auspico vivamente ciò che D.L. propugna, un’analisi approfondita del mestiere di scrittore, la citata “officina creativa”, il travaglio d’artista fatto di continui aggiustamenti, possibili revisioni, passi avanti e indietro, e tecniche per superare l’impasse, i sortilegi mi vien quasi da dire, per un’attività che ha radici nel profondo, nel magico. Saprà l’autore mettersi a nudo? Sì, se egli rinuncerà a mettere in mostra se stesso, se sarà disposto come nella sua scrittura a superare la realtà superficiale, a precipitarsi e precipitarci nel recondito che affiora appunto dalla sua fantasia. Nulla di più di quanto sostiene D.L., mi pare.
Da bravo scolaretto mi accingo adesso a svolgere il mio compitino. Perché tale diventa il barcamenarsi tra innumerevoli supposizioni, assertive enunciazioni, filosofanti patemi, autoreferenziali orgogli, chi più ne ha più ne metta. Bisognerebbe capire innanzitutto quel che sia da commentare, se l’articolo di L.C. o il post di D.L., tanta è la carne al fuoco. Tratterò alcuni punti in comune.
RispondiEliminaD.L. ci fornisce un sunto, di personal trasporto, puntando il dito or qua or là per stigmatizzare alcuni paradossi, dubbi, financo ansiose o ansiogene dicotomie (forma mimetica o concettuale, semplice eroismo o cosmogonico titanismo, visione monadica o sistematica).
Nell’articolo linkato ho difficoltà a capire di chi siano realmente le affermazioni: se del recensore o del saggista: troppi assunti (bisogna aver letto il libro) che tendono a minimizzare o nascondere i concetti, o assiomi, siano essi pur molto ampi e dipanati. Traspare quasi la voluttà (è l’eccessivo amor di letteratura, ragazzi!) di ricadere nei canoni o rientrare nei ranghi... ci si chiede: quanto può essere rivoluzionario un romanzo? In un gioco di realtà e finzione, alla fine si rischia di perdere la tramontana, non si capisce più dove stia la verità, non “si rovescia e reinventa” soltanto il mondo a cui la narrativa è fermamente legata.
Così dice il censore: un po’ di democrazia non guasta: piuttosto essa può convivere con la letteratura? Sì, se a prevalere è la libertà di espressione. Troppo complesso è analizzarne però tutti i risvolti. Nel vorticoso ambito dell’editoria, della distribuzione, della critica, persino delle librerie e dei lettori, c’è poco spazio per l’iniziativa personale.
Piuttosto la domanda di fondo potrebbe essere sempre la stessa, alla prova dei fatti: lo stato del romanzo alla luce della modernità (contemporanea ché ogni periodo potrebbe averne una), il dilemma tra la sua natura e il brodo di cultura (in cui annaspa). Vi siete mai imbattuti in altrettanti spinosi problemi? L’universalità dell’arte, la sua quiddità, l’ispirazione o l’afflato… e altre balle varie (si fa per dire). Il romanzo parrebbe moderno per definizione e nessuno lo nega, tanto è vero che alcuni grandi del passato possono risultare meno attempati di tanti autori d’oggidì, siano essi pulp o underground (per citare qualche novità): non è la forma che determina l’innovazione. Ce ne potremmo persino dolere, per tanto mancata predisposizione: superare certi capolavori è improbo e faticoso, è che bisogna comunque provarci.
Penso che scrivere sia qualcosa di simile all’andare in bici: si pensa a pedalare, a manovrare il manubrio, mai all’estro che ci guida, che ci mantiene in perfetto equilibrio. Tuttalpiù assaporiamo il vento tra i capelli. Credo si debba fare molto di più.
Quasi dimenticavo, nell’enunciazione di qualunque “teoresi del romanzo” probabilmente nessuno si troverà completamente d’accordo.
lascia abbastanza interdetti la fiducia dello scrivente nella potenza controintuitiva: "non ho letto, ma gradisco e contrario". tuttavia, ci terrei almeno a precisare che il mio articolo tenta un movimento di riequilibrio, non una teoria uguale sostitutiva. questo movimento di riequilibrio è paragonabile alla reintroduzione della categoria del tragico ("totalità intensiva dell'essenza"), che lo stesso lucaks ritenne necessaria per bilanciare la tua teoria del romanzo. cosa vi ha spinto a credere che io sia così scemo da negare fare tutt'altra cosa? davvero è stata la mia scrittura?
RispondiElimina*"uguale" è di troppo al rigo cinque e "negare" è di troppo al penultimo. chiedo venia, ma sono sinceramente sbalordito.
RispondiEliminaper correttezza dovreste correggere "nazione indiana" in "ilprimoamore". grazie per l'interesse, comunque.
RispondiEliminaGrazie intanto per essere intervenuto. La premessa dell'e contrario era tale da non assegnarmi alcun potere divinatorio, ma di semplice analisi partendo dal suo 'segno' e interpretandolo, senza arrogarmi un diritto critico a partire da. E limitandomi a questo (se il romanzo è una macchina crea-interpretazioni, molto di più lo saranno le relative teorie coi corollari interpretativi sovrastrutturali, la sua compresa). Non ho sostenuto che lei avrebbe creato una teoria alternativa (anche perché parlo proprio di 'parti contestate' in un saggio che da lei viene apprezzato)e aggiungo che l'esclusione/riduzione di marginalia nella letteratura romanzesca ha poco senso a mio giudizio nel contesto di romanzo come alveo-palinsesto-ripetitivo che ospita spinte diverse, garantite proprio dalla democratizzazione del romanzo, tanto verso l'alto che verso il basso con la sua capacità omologante di fenomenti 'urticanti' come di fenomeni 'edulcoranti', spesso finendo per mescidarle, depotenziandole entrambe vieppiù in un contesto come il nostro. Cose che nel suo testo non mi hanno convinto (e qui rientra sì l'interpretazione di un 'segno' come la manifestazione di un orientamento, il mio) sono state alcune parole che a mio giudizio rimandavano a un sottofondo chiamiamolo mistico nel senso di non giustificato o fumogeno (gli -ibili, cavare sostantivi come rivoluzione parlando di romanzo ecc.). Nazione indiana (nel preambolo) è stato un lapsus rispetto a Il primo amore citato nel testo...forse li sovrappongo. In ogni caso il post(illo) nasceva da un dibattito interno, non aveva alcuna pretesa critico-recensoria (non ho l'animus) e l'ho usato proprio a bieco scopo redazionale perché mi ha suggerito le proposte che invece mi stavano a cuore. Dal momento che le teorie romanzesche, le analisi delle teorie romanzesche e le critiche sulle analisi delle teorie romanzesche non mi esaltano un granché. Non ho un cuore ermeneutico. Spero si faccia vivo di nuovo da queste parti. Un caro saluto.
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