venerdì 1 giugno 2012

Sussurro della sera

E quando mi avrai letto, getta questo libro ed esci. Vorrei che ti avesse dato il desiderio di uscire, uscire da qualunque luogo, dalla tua città, dalla tua famiglia, dalla tua camera, dal tuo pensiero. 
                                                                                                       André Gide, I nutrimenti terrestri

Mi sono convinto spesso, avendolo provato a marchio di fuoco sulla pelle già a vent'anni, che non si ama fino in fondo quest'amore di parole, che chiamano letteratura, senza odiarlo almeno di misura eguale. Senza avvertire un senso profondo di ripulsa, avversione, disprezzo proprio nei confronti di questa possessione. Anzi, misura concreta di una possessione infuriata è proprio la sua negazione infuriata anch'essa, un ardore di consumarla fino a suicidarla, estirpandola se mai possibile, proibitissimo sogno. Quando nelle frasi, le movenze, persino certuni sguardi colgo un fideistico amore, una dedizione sacrale non contaminata dal torbido virus dell'autodistruzione, rimango perplesso. Come se non si riuscisse a percepire quanta perversione di vita, quanta inutilità supponente, si consuma in questo ostinato esercizio di immaginare parole e di parole nutrire immagini, finzioni, fantasmi di vita. E' come se il virus che nel tuo corpo a un dato momento s'è inoculato da sé, genetica stortura immedicabile, non abbia saputo nutrire l'antidoto, gemello e necessario alla sua corretta sopravvivenza. Quell'insana non-vita vive della vita, che l'ha generata, la vampirizza a ogni nuovo passo di ri-creazione e uccidendola sopravvive, lei che s'è bella e seduta sul trono e non trova dentro questo pneuma effimero il suo avversario, che minacci di buttarla giù dal trono. Questa forse potrebbe darsi come linea di confine fra il poeta e il letterato. Fra chi crea e chi compone.

5 commenti:

  1. Vero. Kafka diceva: c'è così tanta letteratura nella vita, e così poca vita nella letteratura. Però credo che una delle ragioni per cui scrivere rischi di rimanere una non-vita è in quanto spesso esclude l'ascolto attivo degli altri. Ho scritto ascolto, e non lettura, non per caso. Sono uno storyteller dilettante e quando condivido una storia davanti a un gruppo di gente, siano essi adulti o ragazzi, non ho dubbio alcuno che il momento della condivisione appartiene alla vita in toto, non all'arte. La letteratura e la poesia un tempo erano anche questo, non c'era poeta che non recitasse le sue poesie, aedo che non narrasse i suoi epos. Questo è andato perduto. O meglio, c'è ancora, ma è nascosto molto bene e talvolta bisogna sforzarsi per trovarlo, o per crearlo. Quando c'è condivisione genuina, allora letteratura diviene vita, perché quella stessa condivisione è un 'atto', non è più solo 'parola'.

    Giovanni De Feo

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    1. Sì, hai ragione, la parola raccontata come ascolto condiviso è roba altra, quella che esercito a scuola ad esempio, rimanda alla neolitica scoperta del fuoco socializzante, nucleo di memoria da tramandare, struttura creatrice di culture, ritualità. Oggi forse di recupero di senso, sperduto dentro la babele delle librerie. E' proprio la crocefissione letteraria su carta, la sua monumentalizzazione a svuotarla talvolta di sangue, il minuetto purulento delle pose letterarie a devitalizzare la parola sedimentata. Non so bene neanch'io perché, eppure sin dalla primissima giovinezza ho nutrito un affetto morboso verso i posseduti dalla letteratura che la uccidono; siano essi i Rimbaud o i semplici Bartlebly, è l'improvviso guizzo di furor distruttivo di chi tanto la ama da volerla uccidere, uccidendosi, a fascinarmi enormemente. In fondo che la disprezzino la letteratura, la snobbino, coloro che non la praticano, marziani in terra di saturno è cosa facile. Qualcosa di oscuro e torbido è la mania furiosa, l'ardore violento contro la tua stessa vita, fin a svuotarla, farla a pezzi. Mi sono sentito talvolta talmente imprigionato nell'Ossesso dell'Immagine da rischiare ogni cosa, tutto bruciare pur di evaderne. E' vero, però, che non lo si può raccontare se non lo si è provato. E parlarne in un blog letterario come questo mi piaceva; inoculare un sano germe antiletterario in cuore che di letteratura palpita.

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  2. Rimango su Kafka, per l'estremo positivo: Io non sono che letturatura, e posso e voglio non essere null'altro.
    Poi c'è il polo opposto.
    Io non ho ancora vent'anni, eppure le tue parole, Danilo, le sento tremendamente mie.

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  3. Sì, beh, c'è qualcosa in tutte le arti che appartiene senza dubbio alla morte. Questo qualcosa è quello che permette la sublimazione della vita in altro-dalla-vita. Non è solo in letteratura, è vero anche per la recitazione, le arti figurative etc. Credo che siamo naturalmente attirati verso gli artisti che con questo patto demoniaco vita-arte ci hanno rimesso l'anima, o le penne. Sono i Faust dei secoli passati, quelli che per creare si sono letteralmente dannati. Eppure, come nella seconda parte del dramma di Goethe, nella loro dannazione c'è pure la loro salvezza.

    Che poi possa essere anche la nostra di salvezza, eh, magari...


    Giovanni De Feo

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  4. La natura funeraria dell'atto creativo è implicita nel suo dna macabro-erotico, il punto di contatto estremo fra il desiderio teso fino allo sfiancamento (eros) e l'inumante suo appagamento (thanatos) che genera un circuito continuo, una perversione che può condurre all'ossessione del non-appagamento continuo (il coito interrotto, la masturbazione id est: l'elegia dell'incompiuto, del frammento ecc) oppure l'olocausto totale, il divampare dei due opposti sentimenti che collidono senza soluzione di continuità. I due estremi si possono toccare, gli ho provati entrambi, specie il secondo, senza condurli fino alle estreme conseguenze e sono, credo, transiti fisiologici all'interno del ciclico, precario scantonare creativo.

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