Negli anni in cui il
teatro italiano di ricerca era ancora preso tra le eredità del
teatro immagine post moderno degli anni 80; i cascami della cultura
dell'attore e del teatro di gruppo; gli sviluppi non solo virtuosi
del teatro d'animazione; il lavoro ancora carico d'energia dei
maestri carismatici della scrittura scenica anni '70; le indicazioni
di gruppi che provavavno nuove vie anche piuttosto estreme (come il
Teatro del Lemming di Massimo Munaro), il linguaggio teatrale fondato
da Marco Baliani – che poi verrà etichettato dai critici come
Teatro di Narrazione e si cristallizzerà in un vero e proprio genere
praticato da innumerevoli nuovi attori-narratori - sembrava azzerare
il mito dell'attore-fisico da un lato e, dall'altro, quello della
scrittura scenica fatta di luci, musiche, scene, recitazione,
montaggio associativo di testi disparati. Non solo Baliani stava in
scena seduto – una specie di crimine teatrale, all'epoca – non
solo riduceva al quasi nulla l'apparato
illuminotecnico-musical-scenografico della scena, ma raccontava un
testo d'autore quasi integralmente, e di un autore come Heinrich Von
Kleist piuttosto trascurato – come molti altri autori del resto -
dalla generazione teatrale di cui Baliani faceva parte.
Cosa fa Baliani? Teatro?
Narrazione? Poesia? Testimonianza? Un po' tutto questo insieme. E lo
fa affidandosi alla parola detta; alla capacità che ha la parola di
farsi linguaggio del corpo innervandovisi, pur senza perdere la
propria autonomia letteraria. Un esempio di forza teatrale che si è
espressa al massimo grado nello spettacolo “Kohlhaas”,
dall'omonimo testo di Von Kleist, che – se permettete un inserto
autopubblicitario - consiglio a tutti di venire a vedere questa sera,
3 luglio, alle ore 21.15, ad Alzo di Pella, nell'ambito della
rassegna TEATRI ANDANTI, 12a edizione.
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