mercoledì 24 ottobre 2012

Reality



Nella prima parte ha un che di sociologico; come a dire, la solita Campania stracciona e cafonella, caciarona e monnezzara. Poi quando si innesca il punto focale della trama - il disgraziato pescatore Luciano s'ammala di illusione da reality - il tutto acquista una sfumatura surreale, godibile. Un "Truman Show" ribaltato con il protagonista che entra in un gorgo donchisciottesco convincendosi sempre più che quelli della 'casa' lo stiamo spiando per dargli l'ultima chance d'ingresso. E così entra in un intreccio vizioso, s'ammala sempre più e quando pare essersi disintossicato del tutto compie il gesto finale, di rottura estrema: penetra di notte nella casa per farsi la sua solitaria e goduriosa promenade, mettere il piede dentro un sogno di riscatto, toccarlo, viverlo anche lui. In sé la cosa che intriga di più non è il soggetto né la sceneggiatura né tanto meno l'ambientazione smaccatamente prevedibile. E' il tono complessivo a interessare di più. Come a dire: un ritmo lento e silenzioso, poco o niente bozzettismo caricaturale (per fortuna!), una specie di minimalismo (perdonate l'orrendo vocabolo, ma è sintetico) nelle inquadrature, una fotografia essenziale, un privilegiare anzi le inquadrature dall'alto o panoramiche che danno l'idea di questo incombere dall'alto e il 'basso', ciò che sta da basso è sottintesa farsaccia (così il presepio del caseggiato orrendo dove vivono i personaggi è fantasia alienata, realtà deforme che mette in gabbie inconsapevoli i suoi abitanti). Al centro di questo ben s'adatta la nitida, pulitissima, a tratti piena di levità e grazia, interpretazione del protagonista: Aniello Arena, uno dei migliori attori di Armando Punzo, ancora oggi detenuto nel carcere di Volterra. E' minimo anche lui; ma la sua maschera è carica di senso e di sensi. In certi passaggi registra lo spavento sublime, tossico dei sogni che divorano le anime lasciate sole a se stesse, a consumarsi nei loro amori segreti. Uno spavento infantile, leggero, che tocca i posseduti di qualsivoglia specie e che non riescono a risvegliarsi; non sanno, non vogliono. La pittura di un piccolo uomo carico di ardore sincero dentro un mondo intriso di confusione e stordimento, che di lui non si accorge. La sua liberatoria risata nel finale ha un sapore disarmante e disperato; qualcosa che non è patetismo, anzi, è tragedia pura. Perché lascia solo chi sogna e non gli può né potrà mai fornire riscatto.

7 commenti:

  1. Bella analisi, Danilo. Mi trovo piuttosto d'accordo, specie sull'interpretazione del protagonista. L'unica cosa che mi lascia un po' perplesso, nel film, è che io davvero non sono riuscito a immedesimarmi. E' come se ci fosse un sottile velo di plastica che mi impedisce di calarmi nella scena e godermi appieno il film - che poi è lo stesso limite di Gomorra, secondo me. Non riesco proprio a capire a cosa sia dovuto. Sarà il protagonista incomprensibilmente folle, sarà la surrealtà dell'insieme, però con una recitazione così disinvolta e una regia così discreta mi aspettavo di esserci catapultato dentro, e invece...
    A parte questo, mi allineo al tuo entusiasmo.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ma, Edoardo, in sé la non 'immedesimazione', il non esserci dentro non è un gran male, anzi. Può essere sintomo di un distacco consapevole, quasi una dimensione di non partecipazione emotiva rispetto a un registro volutamente stonato, che si percepisce nella sua stortura ancora meglio(anche se 'Gomorra' lavora su un asse più sensoriale, quasi carnale; qui invece si lavora sul doppio binario sociologico-surreale). Anzi credo che il tono più tenue, da commedia spenta lavori in questo senso; diversamente sarebbe divenuto un pamphletuccio sull'Italia berlusconiana, sul divismo da quattro soldi. Il che sarebbe stato fin troppo moralistico (anche se di riflesso è ovvio che vi si può leggere anche questo).

      Elimina
  2. Vero vero vero, sì, non è un film in cui "entrare" nella testa del personaggio. Però forse avrei gradito che Garrone facesse qualcosa per toccarmi emotivamente o chessoio. Ti spiego: io sono uscito dalla sala consapevole di aver visto un film ottimamente realizzato, ben scritto, con una fotografia curata e un sonoro perfetto eccetera, e di aver seguito una favoletta divertente e nient'affatto banale, che può far pensare. Ho visto questo bel film, sono uscito e me ne sono dimenticato. Perché Garrone vuole essere leggero, ma fino a un certo punto. Vorrebbe colpirmi di lato, lasciarmi l'amato in bocca, penso, ma io ho visto solo la storia di un pirla - una storia agghiacciante, ma che in fondo non mi riguarda. Forse semplicemente mi aspettavo qualcosa di diverso. Un dramma umano diverso, boh.
    In ogni caso, mi è piaciuto, per tutti i motivi di cui hai ben detto tu sopra. E a chi me lo chiede, dico di aver visto un ottimo film. Solo, forse, non è totalmente nelle mie corde.
    Ok, non ho neanche voglia di rileggere, sono mentalmente sfiancato dalla riunione di oggi e mi fa male il cervello. Spero di non aver scritto cazzate. Mi è dispiaciuto non vederti. Comunque domani mando a te e agli altri un riassuntino di quello che ci siamo detti.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Intendiamoci, Edoardo, non è affatto un capolavoro (nemmeno Gomorra, lo era, sebbene nettamente superiore). Ma posso capirti, cioè capire l'angolatura dalla quale lo hai ricevuto.
      Grazie per il riassunto che ci manderai; se sei sfiancato vuol dire che c'è stata materia di lavoro e ne sono contento...tu almeno sei intellettualmente sfiancato, io sono solo intasato (e gocciolante, porcaccia miseria!)

      Elimina
  3. Cioè, mi è sembrato un po' freddo. Ecco.

    RispondiElimina