venerdì 23 novembre 2012

Joyce: Bene!

Il divino Carmelo

(gratias ago tibi, Marce Marzagalle)

8 commenti:

  1. Oltre le curiose performance di un mattatore assoluto come Carmelo Bene e al di là di ogni Joyce, Manzoni, Alighieri che siano (allungate voi la lista), sarebbe interessante se ognuno raccontasse degli autori che possono avergli condizionato la vita o carriera (magari in altri post).
    Confesso che Joyce ha avuto una parte preponderante nella mia formazione letteraria, avendo iniziato nel lontano ’65 a prendere in mano le sue opere. E già, quella datata edizione Medusa campeggia tra i cimeli più preziosi (e consunti) della mia libreria.
    Inizialmente è stato duro portare a termine una lettura completa: ho dovuto studiarci su, leggere saggi, analizzare il linguaggio, imparare a riconoscere la tecnica e lo stile; ancor oggi dedico un po’ di tempo alla rilettura dei lavori joyciani.
    È stata proficua la mia scelta? Probabilmente no, visto i miei scarsi tentativi narrativi.
    Ho persino azzardato una traduzione dell’Ulisse completando circa duecento pagine grazie principalmente all’uso di internet (ricerche sui siti dedicati, i dizionari inglesi, la bibliografia critica). Nulla a che vedere comunque con chi si è dedicato anima e corpo all’opera complessa e controversa dello scrittore irlandese: si pensi a Luigi Schenoni al quale sono occorsi più di vent’anni per tradurre il Finnegans Wake senza peraltro portare a termine l’opera.
    Del resto, se l’autore ha impiegato almeno quindici anni per la stesura del suo libro, non vogliamo sprecare un po’ del nostro tempo per comprenderne il significato?
    Si potrebbe obiettare che i tempi moderni con le loro frenesie editoriali non lascino spazio a simili esercizi estenuanti, che non occorra andare troppo per il sottile, che la scrittura debba essere scorrevole e tanto più comprensibile, che ne abbiamo insomma fin troppe di matasse da sbrogliare: a me piace pensare il contrario e non riesco a immaginare un’opera contemporanea senza un retroterra letterario di grandissimi valore e sapienza.
    Forse solo così potremo prolungare e proclamare gli effetti straordinari di un’epica narrativa mai doma che ha radici nel passato dei grandi, nel presente del libro e nel futuro di chi legge.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Joyce...dunque. Letto a 26 anni in successione dopo i Dubliners e il Portrait (in parte in inglese). Ovvio: impatto violento, mi piacque molto, anche se a vent'anni un'opera così non può non piacerti (almeno in considerazione di un percorso come il mio dell'epoca). Buttai giù due paginette di riflessione e l'immagine che ne ricavai è di opera divaricata: fra "persuasione" e "estasi". La prima metà è tutta estatica; quella scrittura elettrica - come la chiama San Carmelo da Campi Salentina - ovvero sensoriale, corporale, emotiva e analogica. Poi verso la metà si divarica verso un evoluzione tutta più retorica, nel senso letterale di convincimento-avvitamento razionale, con una costruzione immaginativa più fredda. E' chiaro che se lo rileggessi ora la sensazione cambierebbe ancora, naturale. Però devo dire che all'epoca trovai opera più compatta il "Portrait", più densa e serrata. Ma naturalmente se si fosse fermato lì, come dice C.B., oggi non staremmo qui a parlare di lui.

      Elimina
    2. Tanto per alimentare il dialogo.
      Lo svolgimento dello Ulysses è giustamente evolutivo (qualcuno potrebbe ritenerlo addirittura involutivo data la peculiare e crescente difficoltà di interpretazione). Quel che tu chiami “Persuasione ed estasi” ci riconduce alle epifanie dei Dubliners, la Telemachia di Dedalus è il proseguimento diretto del Portrait: l’artista nel suo monologo è già maturo ma il suo vero compimento avverrà solo lungo il corso del romanzo, parallelamente all’affermazione di Bloom con la sua surrogata universalità.
      Lo stile è troppo ragionato, freddo, calcolato? Può darsi, ma Joyce elargisce il massimo delle capacità espressive, si pensi al surrealismo onirico del capitolo Circe o al monologo finale di Molly-Penelope, un dormiveglia emozionale che prefigura il Finnegans Wake in cui lo stile si dipanerà partendo anche da altri capitoli (come Il Ciclope o Le Mandrie del Sole) con l’intrico delle loro allusioni e citazioni.
      Al di là di tante quisquilie speculative (le mie), presa confidenza con la materia, io trovo che l’Ulisse (anche in italiano) sia tra l’altro un libro divertentissimo.

      Elimina
    3. Il Finnegans non l'ho mai letto (né comprato) pur ripromettendomi all'epoca di farlo.(Ma la lettura è amore sempre fedifrago, per fortuna). L'evoluzione concettuale della seconda parte, intediamoci, non mi dispiacque più di tanto; anche se sequenze come quella del bordello le trovai forse un po' troppo sfilacciate nel loro surrealismo esasperato. Il Molly's monologue è altra cosa; lì riprende certa tensione dell'inizio. Ma il testo, ripeto, a riprenderlo oggi per me sarebbe ben altra cosa - anche se non rientra tra le mie priorità. Che Joyce faccia ridere, hai voglia! E' l'umorismo tutto anglosassone di uno Sterne, di uno Swift, che non si coglie se non nei riflessi. D'altronde anche Kafka pretendeva che i suoi lavori facessero ridere. Mentre oggi l'immagine che si ha di lui è ben altra...

      Elimina
    4. Eloquente e chiaro, a partire dalle origini emblematiche dei precursori.

      Elimina
  2. Scaduti i diritti editoriali, stanno fiorendo alcune nuove traduzioni dell’Ulisse che aprono stimolanti dibattiti e mettono in luce ulteriori interpretazioni. Terrinoni ha già pubblicato la sua versione con Newton Compton, Celati lo farà probabilmente l’anno prossimo con Einaudi (questa estate sono apparsi su Il Sole 24ore alcuni articoli anticipatori). Il lavoro è improbo, le differenze sono più che altro tecniche (nella resa dello stile), si discute quali siano le scelte migliori, quali più letterarie, avvincenti o esplicative. Ne scaturiscono opinioni curiose ma affascinanti come quella di Giulio Giorello:
    http://www.left.it/2012/06/16/un-ulisse-tutto-da-ridere/4402/

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Be', l'aspetto umoristico lo coglie bene chi possiede la lingua, un irish, in particolare, che si muova a suo agio nel gaelico soprattutto. Ho un mio caro amico che ha la fortuna di essere irlandese, gesuita e aver insegnato letteratura inglese per vent'anni alla Statale di Dublino (pur da gesuita, si noti) . Cultore di Joyce quando mi lesse alcune parti il suono e la capacità di penetrarne i dettagli per lui era qualcosa di naturale, laddove per uno come me era spesso faticoso o oscuro. Il Finnegans poi a sua detta era roba oscura e molto; figuriamoci per un italiano che - fatica improba a parte di Schenoni, e neppure ultimata (mancano gli ultimi 4 capitoli ancora intradotti) - non dispone di traduzione completa.
      D'altra parte il destino dell'opus maximum joyciano è singolare: credeva d'aver scritto un'opera illeggibile, roda da catacombe letterarie, e invece la sua è l'opera più citata, più evocata, più incombente di tutta la letteratura moderna...anche se spesso la meno letta (e magari meno compresa e quindi amata fino in fondo, per adesione amorosa e non per coazione da posa letteratica).

      D.L.

      Elimina
    2. Ho appena letto un vecchio saggio di U. Eco (trovato in biblioteca) dove affronta il tema delle poetiche di Joyce e prende in considerazione tutti i suoi lavori compreso il F.W.
      L’analisi è criptica ed esoterica (ai miei occhi bella) quasi quanto l’oggetto della critica stessa (pur rimanendo nei giusti confini di un'esposizione divulgativa).
      Parte dalla scolastica medievale e dalle concezioni tomiste, attraversa la Hysperica Famina, per approdare alle convinzioni bruniane o alle teorie vichiane, un bel pot-pourri filosofico e filologico.
      Inoltre, che F.W. abbia radici mitologiche ben si sa: insomma un romanzo (?) costruito sul passato che getta le basi per il futuro.
      Io ho letto la traduzione di Schenoni (ma non ancora studiata) e sono sicuro che, per quanto attinente e scrupolosa, essa dà origine a una nuova opera, per l’impossibilità di resa dei significati, della jonglerie verbale o della sonorità linguistica tipica dell’originale.
      Credo comunque che Joyce abbia voluto fornirci un grande esempio di scrittura moderna, dove i concetti stilistici e letterari risultino completamente ribaltati, sia che si parta dai suoi lavori precedenti o che si sprofondi nella notte dei tempi.
      Saluti e onori al gaelico gesuita!

      Elimina