Leggo oggi sull'elzeviro del Corriere la recensione a questo libro. Gli editori, si sa, trasformano qualsiasi cosa: fanno di erba alloro, di fango marmellata, di latta platino. Di questi tempi, poi. Trasformano e assorbono persino le spinte sovversive; premiandole le addomesticano. Eppure al di là del sapore da primitivismo letterario con venatura memoriale tipicamente da scrittura 'donna' (filone aurifero nelle vendite), è storia - questa della contandina sgrammaticata Clelia - antica e vera. Quando la scrittura è urgenza assoluta, necessità, respiro a bocca aperta, purezza senza scorie. Lo stadio embrionale, quello dell'infanzia della parola non ancora corrotta dalle pose letterate, dall'erudizione e la malizia dell'esperienza, dagli antagonismi e i protagonismi, dalle moine, gli ammiccamenti, gli sberleffi, le inutili, supponenti polemiche da aiuola tanto ridicola.
Mi ricorda come nasca un desiderio potente, che viene da lontano e non ha nome né motivo. Un bambino di undici anni, una penna e quaderni rilegati col nastro adesivo, giusto trent'anni fa. A rincorrere fantasmi e illusioni travasate da libri d'avventura, di sogno, di un Salgari o di un Verne senza partigianerie pronunciate con smorfietta guardinga: ma tu preferisci Salgari o Verne, a chi appartiene il tuo gusto sapido da buon amatore delle lettere? Le lettere, già. Non le parole, soltanto le parole e nient'altro. Le lettere, le buone e curate lettere.
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