mercoledì 6 febbraio 2013

Stati Uniti versus Europa

Vedi alle volte le coincidenze: interessante analisi del rapporto fra letteratura statunitense e vecchia, vecchissima Europa negli ultimi tempi. Che il flusso-influsso stia finendo come mi dicevo (speravo) qualche post fa (29 gen.)?

2 commenti:

  1. Mi ero perso la titillante jonglerie del 29/1, meno male che lo hai ricordato.
    Cercherò di rimediare in qualche modo al mio ritardo.
    Io non sono proprio filoamericano (anzi!), ma sulla letteratura glisso: cerco semplicemente di non essere campanilista.
    Mi viene subito in mente il Moby Dick che sto rileggendo proprio in questi giorni in una traduzione recente, e che da solo ombreggia svariate generazioni di romanzieri. Orbene il suo enciclopedismo val bene un Gargantua o un Tristram Shandy.
    È forse inutile citare gli autori letti se ad altri faremmo di certo un torto. Però, tanto per rendere l’idea, mi va di ricordare la tecnica visionaria di Kerouac o, perché no, il dadaismo di H. Miller: ma sono solo pareri personali. Varrebbe l’opinione di un cattedratico, di colui che abbia seguito certi corsi o indirizzi: qui c’è materia per tutti d’altronde. Un Calvino americano? Che incanali la critica sul giusto binario.
    C’è chi direbbe Steinbeck, Hemingway o Faulkner. Chi Ginsberg o Burroughs. Chi additerebbe Bellow o Salinger. Fate un po’ voi. L’ultima cosa (nel senso di più recente) che ho letto e apprezzato, è quel metaforico e icastico Meridiano di sangue.
    Mi viene poi in mente un paragone, cosa assai banale: letteratura come il cinema? Si pensi ai prolifici registi italo-americani: se si vuol dare un’impronta alla propria opera, ci vuol bene un fertile substrato, le proverbiali radici culturali affondate nel passato (o nella storia, se volete). Ma anche lì è questione di connubio: tutto si confà e più è miscelato più ci piace. O è solo un cocktail?

    Non ho ancora letto l’articolo linkato: magari mi esprimo in seguito.

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  2. Quel che dovremmo evitare è quella forma di flogosi che oserei definire “americanite”, una pandemia universalmente riconosciuta dai dettami imperanti, imperativi o imperialisti che spesso accompagnano la diffusione dei valori cultural-tecnologici d’oltreoceano. Ohibò!

    Che l’Europa abbia una tradizione da conservare è fuor di dubbio, che non debba subire grosse influenze è altrettanto vero. Rilevo però più minacce dal mercato, dal consumismo diffuso o auspicato: un libro si compra, si legge, si butta. Pronti ad acquistarne un altro (simile al precedente, peraltro).
    Ben fa Arbasino a domandarsi e riferirsi ai grandi maestri: lui così approfondisce. Gli americani son bravi a lanciar le mode, a scuotere l’ambiente (il postmodernismo è nato lì?). Ma sono gli europei (gli altri) ad affinarne i significati, a completarne la stesura programmatica: per adattarle ai canoni del passato.

    Ogni corrente o movimento tende a esaurirsi col tempo e a perdere d’efficacia. Così è sin troppo facile teorizzarne il fallimento. Attualmente mi è difficile credere che sotto la cenere covino grandi idee pronte a scaturire. Ormai è troppo importante la propaganda: sulle quarte di copertina si afferma sistematicamente: il più grande capolavoro degli ultimi anni. Qualcuno ci crede ma altro non è che l’epitaffio dell’invenzione.

    Poco importa se qualcuno riuscirà a trarci fuori dalle secche, sia egli americano o europeo (o d’altra etnia conosciuta).

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