Ho letto "Sinapsi. Opere postume di autore ancora in vita".
Il libro - che raccoglie ventuno racconti di Matteo Galiazzo già apparsi dal 1992 al 2009 in riviste o antologie, e un racconto inedito - vanta la peggior prefazione della storia della letteratura (di Tiziano Scarpa) e un paratesto goffamente elogiativo dell'autore.
Sul libro in sè dico: mah. A me Matteo Galiazzo ricorda Stefano Bollani. Entrambi hanno un grande talento, entrambi si ostinano a mimetizzarsi, citare, fare il verso (a volte sono davvero spassosi, altre volte davvero bolsi). Come se li terrorizzasse l'idea che, a placare questa furia proteiforme, si troverebbero costretti a fare davvero i conti con se stessi, coi propri limiti.
In un'intervista rilasciata a Maria Rita Buratto (Comunicare Letteratura 2010, n° 3), già da me citata qui sul blog, Cesare Viviani dice di non comprendere e non apprezzare certe commistioni contemporanee tra un ambito artistico e l'altro (mi pare che ci sia una parola-pigliatutto da adoperare in questi casi: installazione).
Dice Viviani che così operando, - vado a memoria, sarò senz'altro impreciso - così entrando e uscendo da una forma d'arte a un'altra, non si potrà mai guadagnare la necessaria concentrazione per istituire un corpo a corpo col limite.
Ecco, la stessa dispersione di energie ho avvertito nella narrativa di Galiazzo.
Chissà, tenuto a pane e acqua in una segreta e costretto a scrivere il suo Vero Romanzo, che meraviglia potrebbe produrre.
(Nessun narratore è stato maltrattato durante la stesura di questo post).
Il libro - che raccoglie ventuno racconti di Matteo Galiazzo già apparsi dal 1992 al 2009 in riviste o antologie, e un racconto inedito - vanta la peggior prefazione della storia della letteratura (di Tiziano Scarpa) e un paratesto goffamente elogiativo dell'autore.
Sul libro in sè dico: mah. A me Matteo Galiazzo ricorda Stefano Bollani. Entrambi hanno un grande talento, entrambi si ostinano a mimetizzarsi, citare, fare il verso (a volte sono davvero spassosi, altre volte davvero bolsi). Come se li terrorizzasse l'idea che, a placare questa furia proteiforme, si troverebbero costretti a fare davvero i conti con se stessi, coi propri limiti.
In un'intervista rilasciata a Maria Rita Buratto (Comunicare Letteratura 2010, n° 3), già da me citata qui sul blog, Cesare Viviani dice di non comprendere e non apprezzare certe commistioni contemporanee tra un ambito artistico e l'altro (mi pare che ci sia una parola-pigliatutto da adoperare in questi casi: installazione).
Dice Viviani che così operando, - vado a memoria, sarò senz'altro impreciso - così entrando e uscendo da una forma d'arte a un'altra, non si potrà mai guadagnare la necessaria concentrazione per istituire un corpo a corpo col limite.
Ecco, la stessa dispersione di energie ho avvertito nella narrativa di Galiazzo.
Chissà, tenuto a pane e acqua in una segreta e costretto a scrivere il suo Vero Romanzo, che meraviglia potrebbe produrre.
(Nessun narratore è stato maltrattato durante la stesura di questo post).
[...] “Io ho una passione per i punti di vista. Ad esempio le strade, io quando passo per una strada mi piacerebbe entrare in tutte le case e guardare quella stessa strada come si vede da tutte le finestre. Se potessi io mi affaccerei da tutte le finestre che esistono, per vedere tutte le inquadrature possibili di tutte le strade che esistono.”
RispondiEliminaSecondo me, questo frammento [di un racconto di Galiazzo] ti dà un’idea di cosa potrebbe succederti leggendo questo libro. Lo descrive in maniera abbastanza precisa. Le storie che contiene questo libro, le stanze di questo edificio, le regioni di questo continente, sono come tutte le finestre che guardano tutte le strade da tutti i punti di vista. Matteo Galiazzo ha usato l’arte del racconto per affacciarsi a tutti i punti di vista di tutte le finestre aperte su tutte le strade. Ma la frase precedente è imprecisa e insufficiente. Questi racconti fanno qualcosa di più. Matteo Galiazzo non si è semplicemente affacciato. Si è identificato con le finestre stesse. E con le strade che guardava. È diventato finestra e strada. Anzi, finestre e strade, al plurale. Perciò – aggiungo – per ottenere questo risultato si è servito di un’arte plurale come quella del racconto, un’arte-moltitudine, un’arte-folla, che salta da una finestra all’altra, da una strada all’altra, cambia stanza, edificio, città, regione, continente, diventa cose, animali, persone, idee, diventa tutti gli esseri dell’universo. Ogni racconto è libero di farlo ricominciando da capo, senza dover rendere conto a nessuno, senza sottostare a un’ipoteca di progetto generale, senza obbedire alla strategia di un romanzo. Agile, serio, intenso, il racconto sprofonda nell’immedesimazione di qualunque cosa, aggredisce e pervade l’essere, da tutti i punti cardinali, lo diventa. Questo libro ti mette in comunicazione con quella fibra primaria del mondo in crescita e proliferazione, il momento duraturo e ininterrotto in cui l’essere diventa sé stesso, e continua a farlo, e prova il piacere conoscitivo e passionale – in una parola, l’esperienza – di diventare tutte le cose.
[...]
Ho riportato qui sopra una pagina della mia prefazione a Sinapsi perché gli eventuali lettori di questo post si facciano un'idea di cosa c'è dentro e giudichino da sé.
Buona scrittura a tutti.
T. S.
Ho prestato la mia copia di "Sinapsi" a un'amica che adesso si trova - beata lei - in ferie in Ogliastra.
RispondiEliminaQuando ne rientrerò in possesso, motiverò la mia iperbole sulla prefazione di Scarpa al libro di Galiazzo.
Buon ferragosto a tutti, lettori eventuali e sicuri.