domenica 14 luglio 2013

Sia avvertito e timido piú presto che audace

[Il cortigiano] voglio che nelle lettre sia piú che mediocremente erudito, almeno in questi studi che chiamano d'umanità; e non solamente della lingua latina, ma ancor della greca abbia cognizione, per le molte e varie cose che in quella divinamente scritte sono. Sia versato nei poeti e non meno negli oratori ed istorici ed ancor esercitato nel scriver versi e prosa, massimamente in questa nostra lingua vulgare; che, oltre al contento che egli stesso pigliarà, per questo mezzo non gli mancheran mai piacevoli intertenimenti con donne, le quali per ordinario amano tali cose. E se, o per altre facende o per poco studio, non giungerà a tal perfezione che i suoi scritti siano degni di molta laude, sia cauto in supprimergli per non far ridere altrui di sé, e solamente i mostri ad amico di chi fidar si possa; perché almeno in tanto li giovaranno, che per quella esercitazion saprà giudicar le cose altrui; che invero rare volte interviene che chi non è assueto a scrivere, per erudito che egli sia, possa mai conoscer perfettamente le fatiche ed industrie de' scrittori, né gustar la dolcezza ed eccellenzia de' stili, e quelle intrinseche avvertenzie che spesso si trovano negli antichi. Ed oltre a ciò, farannolo questi studi copioso e, come rispose Aristippo a quel tiranno, ardito in parlar sicuramente con ognuno. Voglio ben però che 'l nostro cortegiano fisso si tenga nell'animo un precetto: cioè che in questo ed in ogni altra cosa sia sempre avvertito e timido piú presto che audace, e guardi di non persuadersi falsamente di saper quello che non sa: perché da natura tutti siamo avidi troppo piú che non si devria di laude, e piú amano le orecchie nostre la melodia delle parole che ci laudano, che qualunque altro soavissimo canto o suono; e però spesso, come voci di sirene, sono causa di sommergere chi a tal fallace armonia bene non se le ottura. Conoscendo questo pericolo, si è ritrovato tra gli antichi sapienti chi ha scritto libri, in qual modo possa l'omo conoscere il vero amico dall'adulatore. Ma questo che giova, se molti, anzi infiniti son quelli che manifestamente comprendono esser adulati, e pur amano chi gli adula ed hanno in odio chi dice lor il vero? e spesso, parendogli che chi lauda sia troppo parco in dire, essi medesimi lo aiutano e di se stessi dicono tali cose, che lo impudentissimo adulator se ne vergogna? Lasciamo questi ciechi nel lor errore e facciamo che 'l nostro cortegiano sia di cosí bon giudicio, che non si lasci dar ad intendere il nero per lo bianco, né presuma di sé, se non quanto ben chiaramente conosce esser vero.

Baldassarre Castiglione, Libro del cortegiano, I, XLIV

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