martedì 27 agosto 2013

Vero, finto

Nel mio condominio abita un anziano vedovo senza figli. Da un anno e più, non so perché, ha preso a cuore me e la mia compagna; ci regala marmellate, limoni, cioccolata. L'ho solo e sempre sentito al telefono; si muove da casa poco e non riceve nessuno. Al telefono mi racconta - è persona colta, legge, ascolta la radio tutta la notte - di cose un poco strabilianti; oggi per la prima volta è venuto a casa mia col suo pacchetto dono. Non si è fermato che pochi minuti; ancora cose strane racconta. Dubito che molto di quello che dice sia vero; gli anziani tornano bambini, mentono per farsi accettare, amare. Ma che importa? Che siano cose interessanti e dette bene, questo conta solo. Nella vita, come nella letteratura. O no?

15 commenti:

  1. Finché la persona è a distanza di sicurezza, nessun problema. Anzi. Ma se fosse un parente? Se fosse un fratello? Un figlio? Che re
    E' lo stesso problema della letteratura: se finge e non ti riguarda è bella, eccome. Ma se è tua personale, e finta, sarà bella, ma per te è un problema. Un dilemma, in realtà. Quasi una tragedia. E se per essere onesta e personale insieme rinuncia alla finzione, fino a che punto è ancora letteratura? Bah. Ci vorrebbe una vita per vivere e una per scrivere.

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  2. Belle parole, caro D.L.
    Dubito, però, che siano solo i bambini e gli anziani a mentire per farsi accettare e amare.

    Invece, caro Edo, tu sposti la questione su un punto capitale.
    Pensa che io ho la quasi certezza che si possa essere o grandi scrittori o buone persone. Tale e tanta è la concentrazione necessaria a scrivere un capolavoro che, in quel mentre (e può essere un mentre di anni), non ci si può dedicare seriamente a nient'altro.

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  3. Caro Edoardo, se una finzione non mi riguarda per me non sarà mai bella; la vera letteratura mi riguarda sempre perché è onesta e personale, finta e assoluta. Il resto è cronaca, resoconto, diario intimo o chissà che diavolo di altro.

    Caro Claudio, eccome, si mente a tutte le età, certo; ma nei vecchi c'è qualcosa di tragico, di ultimativo che nessuna altra età può avere. Sull'essere belle persone e grandi scrittori in fondo è un nesso per me fuorviante; la carta è la bella persona che lo scrittore è, se è grande scrittore, ovvio, quando si scrive l'ego che sei muore lì dentro, in quell'altra vita dove ne nasce un altro, che non potrai mai conoscere. Dal momento che, specie nella finzione, è lo sdoppiamento che regna, l'unica onestà si deposita sulla carta; che lo scrittore parli bene, pensi bene, viva bene (oppure faccia il maledetto) poco conta, anche se oggi sembra questa l'unica cosa a contare davvero. E' un po', tornando a Proust, la delusione che il povero Narratore ha davanti alla conoscenza del suo idolo, lo scrittore Bergotte (alter ego di Anatole France); non ritrova in lui la bellezza che c'è sulle sue pagine. E per fortuna, aggiungo; troppi ce ne sono di poetici a chiacchiere e impoetici nei fatti. Che poi la giunzione possa avverarsi, chissà; ma è solo un riflesso d'altro. Perché un vero scrittore è medium, è un tutto di tante persone,che possono immaginarselo a loro piacimento, un niente spesso davanti a se stesso.

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  4. Caro D. L., condivido.
    Facevo però una considerazione diversa (e banale, temo): per scrivere un capolavoro occorre tutto (si legga "tutto" in corsivo) il tempo di cui si dispone. Perciò, chi ha il coraggio - oltre che la bravura - di scrivere un capolavoro, non può - durante quel tempo - essere altro: nè buon compagno, nè buon genitore, nè buon amico, eccetera.

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  5. Caro Claudio, il tuo commento mi è chiaro, ma è un po' più chiaroscurale per me la faccenda; spesso l'attitudine di cui tu parli oltreché terribilmente aleatoria (perdere tutto ciò che tu dici senza ottenere quello che si pensa di meritare) spesso è un po' visione latamente apologetica. Il sacrificio è di certo connaturato all'esercizio 'assoluto' ma c'è una porzione di casualità (accanto alla causalità) che - me ne convinco sempre più - è parte determinante in ogni processo di ricerca artistica, vanifica spesso gli sforzi più prometeici. Prendi un Wagner; aveva quel coraggio spietato, crudele di cui tu parli, una bravura immensa, ha maciullato sulla sua strada affetti, amore, ha sottomesso tutto, ma tutto al proprio ego creativo, ma se non avesse incontrato sulla sua strada Ludwig II, quella sua mente fragile e visionaria, che lo sostenne come nessuno, che sarebbe stato dei suoi sogni immensi? Be', credo che le cause che motivano un percorso (ivi compreso il coraggio di fare a pezzi la tua vita e quella di chi ti circonda) spesso debbano sposarsi con certi casi, chiamiamole coincidenze, altri destino, che hanno dentro un che di terribile, di assurdamente violento nel loro cieco avverarsi.

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  6. E di nuovo, caro D. L., condivido.
    Eppure mi pare che la tua precisazione nulla tolga alla mia (banale) considerazione.

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  7. Assolutamente no; la precisa. Sai, quando sento dire che il merito, l'impegno, la dedizione, il talento, prima o poi vengono premiati (nella vita come in letteratura)sorrido; non credo che avvenga (sempre) proprio per quello che ho detto prima. Il che come a dire che tragicamente, drammaticamente lo spappolatore della propria vita, dei propri affetti, chi insegue il capolavoro con tutto il tempo e le forze non è detto che venga poi riconosciuto (il capolavoro, ovvio); c'è quel quid di casualità che quando avevo i calzoni corti credevo valesse poco o niente (la volontà e nient'altro che la volontà!), ora credo s'attesti su un generoso 50% e qualche volta penso anche a qualcosina di più...

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    1. Insomma, D.L., vuoi dire che si può essere contemporanemente stronzi e inutili.

      Che è vero anche per chi vive a metà le proprie vocazioni.

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  8. Edoardo, si può essere stronzi e geniali senza essere riconosciuti (per quella porzione di caso che ci comanda), stronzi e inutilmente stronzi (per chi ha metà vocazione e se la tira credendo che fare lo stronzo sia sinonimo di genialità), si può essere buoni e inutili (perché si ha mezza vocazione e si crede alla gentilezza come sintomo di buona condotta letteraria e di carriera certa), si può essere buoni e geniali (perché qualcuno, non so, potrà avere la sorte di conciliare le due cose, potrà pure nascere una congiunzione così, al momento lo ignoro, non lo vedo, magari mi consolo e mi giustifico dicendolo, ma può essere perché no?). Quello che non credo e che non mi interessa è che parlare della vita di un autore serva a motivare l'esito della sua produzione; il rischio di dire "ecco io mi sono spaccato la vita ho ucciso i miei amori sono stato un pessimo padre un pessimo fratello un pessimo figlio perché avevo da scrivere" non vale, ha un che di consolatorio per chi non lo fa come per chi lo fa e se anche valesse e producesse risultato (non ex ante ma ex post) non è quello solo che conta nel fatto finale; ci sono una serie infinita di variabili che influiscono sul fatto che quello che chiamiamo sbrigativamente capolavoro non solo lo "sia" ontologicamente ma soprattutto lo "diventi" fenomenologicamente, per le congiunzioni astrali delle epoche letterarie e delle più bieche e fetenti logiche del presente, degli interessi di bottega, degli inciampi e dei sortilegi di un critico, un lettore, un trafiletto, un qualunque accidente che fa sì che quello che è diventi. La volontà che innesca le causalità creative conta e assai; ma non basta a mio avviso. Specie di questi tempi non è abbastanza, no.

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  9. Mi ritrovo sempre a chiedermi se questi fiumi concettuali li tieni in serbo da tempo o se davvero ti sgorgano così (io rileggo due volte anche gli sms).
    Comunque. Vero, sono auto indulgente anche nell'analisi generica. Soffro già di sensi di colpa. Mi (ci?) hai sgamato, non lo nego. Però voglio combattere, e in periodi di stanca servono le provocazioni come questa per spronarsi e convincersi a crederci ancora, e mica solo a credere in me stesso. È la domanda sul senso stesso della letteratura che mi sorprende in continuazione, il suo morire travolta nell'esperienza e dall'esperienza rifiorire, in questa continua dicotomia che perpetuamente la svuota e poi rifluisce a riempirla di senso. Forse sono io che mi devo ancora assestare di qua o di là, ma il dissidio intanto c'è e non vedo come possa avviarsi a soluzione. E quindi mi beo un po' facilonamente dell'aforisma di Claudio sul brava persona OVVERO bravo scrittore, dove ovvero ha il senso pregnante che conserva solo nei test per la patente evidentemente solo per fottere i rumeni e i medio-bassamente istruiti.
    Poi oh, ovvio che ci credo. Perché la fede è una virtù. L'unica virtù che ti fa concludere qualcosa.
    (Oh, Andrea, me la pubblichi sta roba sulla rivista?)

    Sulla qualità umana dei geni letterari sarei felice di tornare a parlare dopo averne conosciuto uno. Magari per liberarmi definitivamente di queste idee romantico-cazzare.

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  10. Per il resto, con la tua lucidità analitica non posso che acconsentire.

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  11. Ho cancellato il mio penultimo commento perché scritto dopo aver letto troppo frettolosamente la risposta di D. L.

    Diciamo che io prediligo (invidio?) i geniacci monolitici. Coloro, cioè, che fanno benissimo una sola cosa; e disastrosamente tutto il resto (giacché si disinteressano, di tutto il resto).

    Tanta purezza e pervicacia mi strabiliano: non so se costoro siano santi o imbecilli. Né se una tassonomia, in questo senso, serva (ma le tassonomie, a ben pensarci, servono sempre e solo a sopire le ansie dei tassonomisti).

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  12. Cari Claudio e Edoardo,
    diciamo che questi 'fiumi concettuali' li mantrugio da tempo oramai, data la buona condizione di selvatichezza in cui mi sono consumato per un paio di decenni almeno.
    Una cosa sola per chiudere: per me il concetto di 'genio' e di 'capolavoro' non solo è abbastanza demodé e fuoriluogo, ma anche abbastanza fuorviante e consolatorio, anche se ha la sua buona dote di sintesi. Per me la letteratura è un enorme palinsesto, su cui si scrive e riscrive sempre la stessa roba e segue processi naturalmente fisiologici (perdonate l'autocitazione ma su "Tabula rasa" n.66 di Atelier ho provato in modo provocatorio ad esprimere questa cosarella qua). Sarebbe bello credere che il genio singolo con prometeico titanico slancio sforni dal nulla il capolavoro (intendendolo proprio come lavoro che sta in cima a tanti altri lavori pregevoli, li assomma e li chiama a raccolta e a verifica, se il caso). Ma per me non è così: ci vuole il contesto e il nostro è quello di una fine naturale e doverosa di determinati processi folgoranti, durati quasi due secoli. Un po' di fiacca ci vuole o no? Il che non significa che non si possa produrre delle opere importanti e significative. Ma sarà un caso se nei primi due-tre decenni d'inizio Novecento siano stati infilati in successione: "Ulisse" "Recherche" e opera kafkiana (tralasciando i legati minori)? Oppure quella era la naturale akmé del modernismo letterario? Pensare che il genio solitario nel contesto nel quale viviamo tiri fuori come il coniglio dal cilindro il capolavoro per me è sana, umanissima consolazione (senza contare la variabile 'caso' che nell'epoca nostra data la mutazione radicale del sistema letterario ne renderebbe ancora più difficile il riconoscimento). I termini della questione insomma non mi convincono. Anche se spero con tutta l'anima di essere smentito e nonostante questo l'esercizio letterario rimane per me comunque una dannazione diabolica, una tortura violenta, un suicidio impietoso che non ho la forza di abbandonare.

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