I primi venti minuti, diciamolo, la tentazione di alzarsi e andare c'è, sì c'è (una donna nella fila di faccia alla mia lo fa). Ma poi, come in un romanzo un po' bislacco la voce forte, il timbro deciso del narratore che anche se ciò che racconta proprio proprio non ti intriga, quella voce la devi comunque seguire, qui c'è la giunzione ottima tra la fotografia, misurata, limpida, a tratti esemplare, e un suono irreale, attutito, come artefatto, senza zeppe realistiche o contorni musicali (e alla fine scopri che il regista s'è incaricato anche della fotografia e del suono: chapeau!). E così, come una pasta lievitata, il film ti cresce davanti agli occhi; quelle storie, pare, scombinate s'accavallano e si congiungono, come in una trama definita, e pur in una forte penuria del parlato, le immagini, le sequenze parlano e parla soprattutto la capacità di posare lo sguardo (questo è poi il regista, il narratore) da un'angolatura inusuale, di vedere con occhi diversi quello che ti capita sotto gli occhi tutti i giorni. Le storie periferiche, marginali del 'filosofo' baraccato, del salvatore di palme, dell'infermiere, del nobile di borgata, dell'anguillaro, delle prostitute vecchie e in disarmo, sembrano ammiccare a un gusto un po' facilotto di realismo brodoso, una roba che sarebbe fin troppo facile appaiare per contrasto al mosaico crasso e bizantino della Roma di Sorrentino in La grande bellezza. Ma non è così; questo è tutt'altro che un documentario, pur essendolo, non ha nulla di realismo come genere cui riferirsi, pur potendosi iscrivere lì dentro a buon diritto. C'è un sapore di astrazione fortissimo, di trasfigurazione del reale, quel reale 'vero', in presa diretta, diventa parabola di altro. Così nel finale, quando scopriamo l'umanità densa dell'infermiere (una scena di una potenza emotiva senza commento) e del 'filosofo' e dell'amatore di palme (il 'personaggio' più forte fra tutti), tutti lavorano verso una dimensione di carità umana, nella sua accezione etimologica pre-cristiana: di tenere in serbo come cosa cara qualcosa dall'abbrutimento circostante, dal logorio della vita e del tempo, qualcosa che non tutti sanno e possono vedere. E altre sequenze fanno della cronaca del reale concreto l'epifania dell'astrazione: la meravigliosa nevicata su Prima Porta (uno dei cimiteri di Roma) o sulle fosse dove si interranno le bare scoperchiate, richiama magari il finale dei joyciani "Morti" ma con una potenza che non ha bisogno di commento. In ultimo; l'aver vinto il Festival di Venezia ha scatenato polemiche (Pupi Avati ha detto che un documentario non può vincere a Venezia, un'opera dunque di non fiction). Ma questo non è un documentario; questo diventa più fiction di una fiction vera, nella sua audacia sperimentativa sorpassa il confine di genere, e entra in un territorio altro, limitaneo, di sconfinamento dove ciò che governa è l'immagine. D'altronde l'immagine come la parola quando vengono sedimentati per essere trasmessi, messi in ordine, codificati e fissati stabilmente, cessano la loro funzione di veicolo comunicativo e diventano altro. Che lo si sappia o no, quella non è più realtà da documetare. E' altro.
Poscritto: un'opera come questa, coraggiosa, non gradevole, non commerciale, vince a Venezia. Chissà se mai nella letteratura capiterà che qualche premio (editorial)letterario abbia la stessa sfrontatezza.
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