giovedì 30 agosto 2012

Mamma li turchi...



Leggo oggi su un blog di cui non faccio il nome un articolo che parte da un certo spunto e poi riflette sul colonialismo italiano, Tempo di uccidere di Flaiano e l'odalischite berlusconiana. Tralascio il resto, non mi interessa, ma certe espressioni sono piuttosto stupefacenti, per me ovvio. 
L'autore dice che durante un corso di scrittura creativa da lui tenuto un allievo scrive un racconto su una donna araba sfruttata dal suo uomo ecc. Il maestro lo contesta dicendo che cosa ne sapeva lui esattamente di donne arabe, quale conoscenza precisa e approfondita aveva della loro cultura, del loro mondo, dei loro sentimenti e ancora aggiunge che La verità è che non sarei affatto capace di scrivere un racconto che abbia come protagonista una donna, raccontato dal punto di vista di una donna e che narra vicende che riguardano una donna. Ritiene la scrittura di un simile racconto "un atto di presunzione".
L'assunto teoretico del tutto, esplicitato in esordio, è che l'autore ritiene di essere privo di quella dote necessaria a scrivere storie totalmente finte che si chiama fantasia. Piuttosto, mi piace lavorare di immaginazione. L’immaginazione fa germinare la finzione dal dato di realtà come la pianta da un seme. Nella fantasia la finzione non germina ma viene architettata.
Certe espressioni mi convincono sempre più dell'inutile supponenza dei corsi di scrittura creativa e di tutti i poveri allocchi che li frequentano (notoriamente chi sa fa e chi non sa insegna o meglio guadagna). Dio, certe cazzate nemmeno a quattordici anni le pensavo! Voglio dire: se non posso scrivere dal lato di una donna sfruttata, la Yourcenar che ha scritto dal lato di un uomo cinquantenne per giunta imperatore entrandogli nel corpo come una medium era una povera illusa e Dostoevskij allora? Per stare per oltre seicento pagine nel corpo e nell'anima di Raskòl'nikov avrebbe dovuto quanto meno dare un paio di accettate di prova a una vecchia usuraia? Parlare di fantasia come una parolaccia e di 'storie totalmente finte' significa che nel romanzo esistano 'storie non del tutto finte'?  Quando Emilio Lussu scrive "Un anno sull'altipiano" la sua è comunque finzione, perché racconta tramite un oggetto finzionale che è il romanzo...possibile che costoro non capiscano cosa sia la parola finzione nella sua duplice accezione rispetto all'enunciazione di realtà? Fingere vuol dire 'plasmare' (come presupposto di mimesi ovvio) ma anche 'simulare, ingannare'. E il romanzo, qualsiasi romanzo che pretenda di essere tale, è oggetto finzionale per natura, non può scardinarsi da questo dato. Lo so, è un mio problema: certa produzione odierna ritiene il romanzo un genere cariato dal mercato e propende per la docufiction (senza sapere che il primo esempio vero verissimo, e insuperato, l'ha dato Manzoni con Storia della colonna infame) o per la prosa 'realista', impegnata con il reale. Tutta una certa corrente di 'narrativa', premiata dalla critica più in vista, abbandona il romanzo perché corrotto e sceglie la prosa, convincendosi di scrivere magari romanzi ancora. Il romanzo, quello vero non scimiottato, è considerato comunque passatempo ozioso, anticaglia reazionaria.
Citare Flaiano poi....ma non è  forse proprio Flaiano a scrivere che "la fantasia trascurata si vendica" e ad aggiungere: "Le opere assolutamente fantastiche sono due volte vere, perché la fantasia ha regole che vanno rispettate; il che non vale per la realtà, affidata al caso e incongruente"?

giovedì 23 agosto 2012

Accadde oggi


I versi diluviano sempre! Nel vedere la quantità di libri di poesie che ci arrivano ogni mese stampati a spese dei poeti c'è da meravigliare della vena, o almeno della buona volontà, di tanti allievi delle Muse.

da Il Fanfulla della Domenica, domenica 25 dicembre 1898


[segue recensione all'ultimo frutto stampato dal 'più grande poeta italiano dopo Dante e Leopardi', l'autore ormai anziano di Rime e Ritmi]


martedì 7 agosto 2012

Terza (e ultima) su Galiazzo

Ho letto "Sinapsi. Opere postume di autore ancora in vita".
Il libro - che raccoglie ventuno racconti di Matteo Galiazzo già apparsi dal 1992 al 2009 in riviste o antologie, e un racconto inedito - vanta la peggior prefazione della storia della letteratura (di Tiziano Scarpa) e un paratesto goffamente elogiativo dell'autore.
Sul libro in sè dico: mah. A me Matteo Galiazzo ricorda Stefano Bollani. Entrambi hanno un grande talento, entrambi si ostinano a mimetizzarsi, citare, fare il verso (a volte sono davvero spassosi, altre volte davvero bolsi). Come se li terrorizzasse l'idea che, a placare questa furia proteiforme, si troverebbero costretti a fare davvero i conti con se stessi, coi propri limiti.
In un'intervista rilasciata a Maria Rita Buratto (Comunicare Letteratura 2010, n° 3), già da me citata qui sul blog, Cesare Viviani dice di non comprendere e non apprezzare certe commistioni contemporanee tra un ambito artistico e l'altro (mi pare che ci sia una parola-pigliatutto da adoperare in questi casi: installazione).
Dice Viviani che così operando, - vado a memoria, sarò senz'altro impreciso - così entrando e uscendo da una forma d'arte a un'altra, non si potrà mai guadagnare la necessaria concentrazione per istituire un corpo a corpo col limite.
Ecco, la stessa dispersione di energie ho avvertito nella narrativa di Galiazzo.
Chissà, tenuto a pane e acqua in una segreta e costretto a scrivere il suo Vero Romanzo, che meraviglia potrebbe produrre.

(Nessun narratore è stato maltrattato durante la stesura di questo post).

giovedì 2 agosto 2012

Santarcangelo dei Teatri 42: se il teatro non è in piazza dov'è?


Santarcangelo dei Teatri, che ha inaugurato il 13 luglio l'edizione n. 42, è il festival teatrale di ricerca più longevo d'Italia. Nacque nel 1971 come festival del “teatro in piazza” quando teatro in piazza non significava più (e non ancora – perchè i vecchi vizi tornano con più forza delle antiche virtù), montare l'equivalente di un intero teatro all'italiana all'aperto, e il concetto di “piazza” insisteva più su un'idea di centralità fisica e di anima di quel luogo, così tipico delle nostre città, nella vita dei cittadini; e dunque teatro in piazza voleva dire teatro nel cuore della polis, teatro che si interroga sul presente, che si fa presente, che interroga la contemporaneità, la sfida, la critica, la sbeffeggia, la dialettizza. In quegli anni l'orribile termine “location” non aveva ancora preso piede a significare luoghi che non hanno anima se non per fungere da cornice ad un “evento” (altra parola sfigurata dalla prassi linguistica di questi ultimi anni), inaugurando il vizio mentale di sostituire la sostanza con la confezione, il progetto artistico con la compilation, l'identità culturale che si basa sulla differenza con l'imperante mainstream del marketing territoriale dove si diluiscono le differenze in nome dell'appetibilità turistica. Oggi lo slogan “piccolo è bello” che fonda da sempre il primato artigianale dell'impresa culturale è zittito a gran voce da quell'altro che proclama il primato inviolabile della visibilità massmediatica. Del resto, i festival teatrali in Italia prima di Santarcangelo, tranne qualche rara eccezione, erano luoghi dove si estenuava - in una dimensione vacanziera e vagamente disimpegnata - la macchina da guerra delle stagioni teatrali, specchio dell'egemonia culturale che ormai i Teatri Stabili italiani in fase di normalizzazione avevano saldamente istituito, benché nati in ben altra temperie culturale, e cioè nell'effervescenza del secondo dopoguerra, dal pragmatismo visionario di un Paolo Grassi. Santarcangelo poneva al centro la piazza non come “location” ma come luogo dove far nascere teatro, dotandolo di una vita più prossima alla società di quanto non avvenisse nelle sale vellutate e oscure dei teatri cittadini. Nasceva fuori dalle aree metropolitane, in provincia, quel festival, con una vocazione alla separatezza creativa che non era solo polemica nei confronti del teatro istituzionale, ma concreta dimensione del fare, politica perché calata nella vita. Le “mani nella terra” di un nuovo teatro che ripensasse le relazioni umane prima ancora che lo spettacolo.