mercoledì 31 ottobre 2012

L’ultimo nastro


“Ho riunito qui tutti voi cari fratelli”, dice il maestro,
“quelli che mungono le capre e quelli che puliscono i bagni pubblici
quelli che portano i volumi e quelli che lavorano in cucina
quelli che mangiano carne e quelli che bevono acqua
i vecchi e i giovani da me convocati e quelli che si sono ritrovati qui per caso
tutti coloro a cui ho detto la parola della vita seduto in cerchio con voi o in disparte
quelli che giacevano ai miei piedi e quelli che li prendevano in giro
per rivelarvi ora che mi trovo davanti all'ultima confessione
che per tutti questi anni ogni giorno ho avuto paura della morte.
Ho aspettato la morte con terrore. In me c’erano dolore e pena
all’idea che Dio per un attimo sarebbe uscito da ma affinché potessi morire.
In me c’era la paura che non tornasse. Che sarei rimasto solo
sprofondato nelle acque della morte con la lingua rattrappita.
Anche oggi il buio mi riempie. La mia mente è incerta
come il mio corpo. Tremo dentro. E non appena inizio a pregare
sento le voci: «Mortale! Mortale!». E il dio nero della morte esulta
sapendo che non è la dannazione che temo. No, è solo la morte in sé”.
Per un momento si fece silenzio poi si alzò il più anziano
dei confratelli del secondo coro e baciò il maestro
sulle labbra. Poi disse: “Già da tempo tutti noi sapevamo
che tu temi la morte. Che ami molto la vita che osservi
dalle mura le facce le spalle e le gambe delle fanciulle e dei fanciulli
che le grida dei bambini il nostro andirivieni la musica
le dispute e il vino ti sono cari e che per amore sei tenero e debole.
Sapevamo anche che se ti avessero tolto la vista l’udito
il gusto e il senso dell’olfatto tu ti saresti tolto la vita
anche se temi così tanto la morte.
Veglieremo su di te e non bruceremo il tuo corpo.
Invocheremo Dio e adempiremo ai riti.
Se tu avessi avuto in odio il mondo non ti avremmo seguito.
E invece siamo qui e ci resteremo
finché sulla terra non si asciugherà l’ultima
goccia del tuo amore”. Poi tacque
e baciò ancora una volta il maestro. E fece un segno con la mano.
E i confratelli si dispersero. Ognuno verso le proprie faccende.


Wojciech Bonowicz, "Mare Aperto", Incerti editori, 2012 (tr. Leonardo Masi)




martedì 30 ottobre 2012

Artistica morte di un matematico



Vent'anni fa usciva l'opera prima di un poco più che trentenne Martone. Il film è una gemma perfetta, nitido e tagliente. Grazie soprattutto alla sublimità inarrivabile di Cecchi, più ispirato che mai. E grazie anche, chissà, al tocco di-vino che lo animò sul set (e lo caratterizza nella vita di tutti i giorni, come è noto). Quando incontrai nel '99 Martone, all'epoca direttore artistico del Teatro Argentina, che invitò me e altri 39 fra attori, registi ecc. a un seminario di una settimana tenuto al 'Teatro dell'Angelo', ci raccontò il 'dietro le quinte' del film. Cecchi, in virtù del ruolo del geniale Cacciopoli tormentato nei suoi ultimi anni da un alcolismo devastante e un nichilismo autodistruttivo, si presentava sul set spesso assai alticcio. Una sequenza fu paradossale; recitava la scena in una mescita di vini con il prete-assistente e una ostessa, una donna dei bassi, una non attrice. Cecchi proprio non gliela faceva a portare a compimento la posa e alla fine la donna, esasperata, esordì in dialetto: " Se chest è fa' o cinema è mejo 'i a fatica' " - " Se questo è il cinema, è meglio andare a lavorare". Cecchi si ridestò e portò a compimento la sequenza. Oltre la straordinarietà dell'interpretazione del protagonista (fra gli altri c'è anche Servillo, amico storico di Martone dai tempi di 'Teatri uniti') uno degli aspetti più suggestivi è il disegno della Napoli anni cinquanta. Una città notturna, budellosa, intestinale, piena di una vita brulicante e carica di sofferenza e martirio. Proprio lei, la città più viva al mondo proprio perché più martoriata. Consigliato a chiunque non l'abbia visto.

lunedì 29 ottobre 2012

Per essere notati dalla critica bisogna buttarsi dalla finestra

Questo articolo è apparso su Il Giornale di oggi, lunedì 29/X/2012
Di Davide Brullo
«Ti abbraccio fratellino mio e non illumino il tuo buio. Non ci riesco nemmeno con il mio». Sedici giugno 2008: Simone Cattaneo mi griffa il secondo libro, Made in Italy. A pagina 35, il suo autoritratto. La fototessera: «Troppo bello per essere un pugile,/ troppo brutto per fare il magnaccia».
Il mestiere: «senza lavoro e inzuppato di grano». La profezia: la «vecchia strega del quartiere» strologa che Simone morirà «presto a ventisette compiuti». L'ammaliatrice che gioca coi tarocchi ha sbagliato di una manciata di anni, otto per la precisione. A ventisette anni muoiono le rockstar, Jim Morrison, Jimi Hendrix, Kurt Cobain, Janis Joplin; a trentacinque o giù di lì ci lasciano i poeti, Giacomo Leopardi, Arthur Rimbaud, Aleksandr Puskin. Questo direbbe il mio amico Simone Cattaneo.
Nel 2002 Simone è rovesciato per metà dentro il bagagliaio di un'automobile. Al suo fianco c'è una mora niente male, forse siamo al lago d'Orta. Sorride mentre estrae una pila di libri: il titolo è Nome e soprannome, lui pare Mosè con le tavole, Alì che mostra al mondo la cintura di campione dei pesi massimi. Il primo libro possiede una violenza epigrammatica, radiosa, tra Vangeli gnostici e Fëdor Tjutcev: «E in fondo le parole non hanno peso/ sono solo un compromesso fra pietre e nubi,/ un vapore brillante che ti lega a sé/ come un torrente d'acciaio in fonderia/ che gli occhi non devono vedere/ per non lasciarsi consumare/ dalla rabbia del rame». Cattaneo, nel 1999 è già stato canonizzato da Giuliano Ladolfi nell'antologia epocale «di poeti nati negli anni Settanta» L'opera comune (tra le attuali starlette letterarie partorite da quel tomo ci sono Laura Pugno, autrice Einaudi e Minimum Fax, Flavio Santi, ora in scuderia Rizzoli, Elisa Biagini, tutelata da Einaudi). Roberto Roversi entra in sintonia con il talento di Simone, corrusco, privo di vezzi lirici, scurrile, scuoiante, «c'è anche qualcosa di infernale... in questi testi, e di terribile», parla di «frasi che ti colpiscono come pugni allo stomaco».

giovedì 25 ottobre 2012

mercoledì 24 ottobre 2012

Reality



Nella prima parte ha un che di sociologico; come a dire, la solita Campania stracciona e cafonella, caciarona e monnezzara. Poi quando si innesca il punto focale della trama - il disgraziato pescatore Luciano s'ammala di illusione da reality - il tutto acquista una sfumatura surreale, godibile. Un "Truman Show" ribaltato con il protagonista che entra in un gorgo donchisciottesco convincendosi sempre più che quelli della 'casa' lo stiamo spiando per dargli l'ultima chance d'ingresso. E così entra in un intreccio vizioso, s'ammala sempre più e quando pare essersi disintossicato del tutto compie il gesto finale, di rottura estrema: penetra di notte nella casa per farsi la sua solitaria e goduriosa promenade, mettere il piede dentro un sogno di riscatto, toccarlo, viverlo anche lui. In sé la cosa che intriga di più non è il soggetto né la sceneggiatura né tanto meno l'ambientazione smaccatamente prevedibile. E' il tono complessivo a interessare di più. Come a dire: un ritmo lento e silenzioso, poco o niente bozzettismo caricaturale (per fortuna!), una specie di minimalismo (perdonate l'orrendo vocabolo, ma è sintetico) nelle inquadrature, una fotografia essenziale, un privilegiare anzi le inquadrature dall'alto o panoramiche che danno l'idea di questo incombere dall'alto e il 'basso', ciò che sta da basso è sottintesa farsaccia (così il presepio del caseggiato orrendo dove vivono i personaggi è fantasia alienata, realtà deforme che mette in gabbie inconsapevoli i suoi abitanti). Al centro di questo ben s'adatta la nitida, pulitissima, a tratti piena di levità e grazia, interpretazione del protagonista: Aniello Arena, uno dei migliori attori di Armando Punzo, ancora oggi detenuto nel carcere di Volterra. E' minimo anche lui; ma la sua maschera è carica di senso e di sensi. In certi passaggi registra lo spavento sublime, tossico dei sogni che divorano le anime lasciate sole a se stesse, a consumarsi nei loro amori segreti. Uno spavento infantile, leggero, che tocca i posseduti di qualsivoglia specie e che non riescono a risvegliarsi; non sanno, non vogliono. La pittura di un piccolo uomo carico di ardore sincero dentro un mondo intriso di confusione e stordimento, che di lui non si accorge. La sua liberatoria risata nel finale ha un sapore disarmante e disperato; qualcosa che non è patetismo, anzi, è tragedia pura. Perché lascia solo chi sogna e non gli può né potrà mai fornire riscatto.

mercoledì 17 ottobre 2012

Bella del Signore

"Sì, Adrien, è così facile sedurle. Nella mia giovane età sono perfino riuscito a soffiare una donna a me stesso. Una storia complicata di gemelli, io facevo l'uno e l'altro, uno rasato e l'altro fintamente baffuto. Gliela racconterò domani davanti al mare viola di Cefalonia".

giovedì 11 ottobre 2012

Mo Yan

Non ho mai letto nemmeno un rigo di Mo Yan, fresco Nobel per la letteratura.
Però da qualche parte devo ancora avere la videocassetta di "Sorgo rosso". Ricordo che il film mi era piaciuto e che naturalmente mi ero innamorato di Gong Li.
E voi?
(Se avete mai letto niente di Mo Yan, dico).

martedì 9 ottobre 2012

Realisti e irrealisti (ieri?)

[...] L'errore dei nostri scrittori di oggi consiste nel credere che la realtà coincida con alcune sue effimere e precarie estrinsecazioni o manifestazioni che dir si voglia: per esempio credere che sono realtà i poveri con tutte le loro disavventure, i ricchi con tutto il loro falso fasto; le guerre con tutte le loro ingiustizie e crudeltà. Ora che i ricchi come i poveri o le guerre costituiscano la realtà, non ci sono dubbi; tuttavia il loro nucleo di realtà è rivestito di una forte espressività aneddotica che finisce per accaparrarsi tutta l'attenzione di chi si pone di fronte ad essi, togliendogli la possibilità di coglierli in quel loro nucleo. [...] Accade allora che lo scrittore che affronta questi temi percependo la loro insufficienza si sforza di completarli giudicandoli: ripassandoli al filo del giudizio morale, con il ricorso alla pietà, allo sdegno, alla comprensione ecc. Si sforza di completarli idealizzandoli. Ed è a questo punto che detti temi dimostrano di non essere autosufficienti. Ed è a questo punto che lo scrittore dimostra di non avere l'atteggiamento della realtà ma quello dell'idea. [...] Compito dello scrittore moderno è effettuare il recupero della realtà, liberandola dalle apparenze (false), in cui si manifesta. Svestire i poveri come i ricchi, perché i loro abiti non sono più portatori di significato, questo è quanto è tenuto a fare.

                                                       Angelo Guglielmi,
                                                      (Il nuovo realismo, 1964)

domenica 7 ottobre 2012

Domanda:

Domanda: perché si dovrebbe argomentare quando si può usare l'ironia?

(da una lettera di Paul Feyerabend a Imre Lakatos, 28 febbraio 1970).


sabato 6 ottobre 2012

Iconoclastia #1

Bene, ora che l'ho letto lo devo dire: a me Pastorale Americana non è sembrato questo gran libro.

martedì 2 ottobre 2012

Scrittori e editori

Leggo un'intervista oggi ad Aldo Busi su un suo romanzo dalle vicissitudini accidentate (premesso: Busi è un autore che non conosco, quando avevo vent'anni mi irritava perché vedevo in lui un tipico giullare postmoderno ben dotato, stregato dal danaro e dal successo, oggi mi procura diffidenza come tutti gli autori la cui vita clamorosa soffoca l'opera, proprio nel momento in cui la ingigantisce). Però dal suo racconto credo possano ricavarsi spunti interessanti su come un colosso editoriale (la Mondadori) si comporti nei confronti di un autore 'dalle uova d'oro'. Figuriamoci questo declinato su autori dalle uova nascenti o vulnerabili, timidette.