martedì 9 ottobre 2012

Realisti e irrealisti (ieri?)

[...] L'errore dei nostri scrittori di oggi consiste nel credere che la realtà coincida con alcune sue effimere e precarie estrinsecazioni o manifestazioni che dir si voglia: per esempio credere che sono realtà i poveri con tutte le loro disavventure, i ricchi con tutto il loro falso fasto; le guerre con tutte le loro ingiustizie e crudeltà. Ora che i ricchi come i poveri o le guerre costituiscano la realtà, non ci sono dubbi; tuttavia il loro nucleo di realtà è rivestito di una forte espressività aneddotica che finisce per accaparrarsi tutta l'attenzione di chi si pone di fronte ad essi, togliendogli la possibilità di coglierli in quel loro nucleo. [...] Accade allora che lo scrittore che affronta questi temi percependo la loro insufficienza si sforza di completarli giudicandoli: ripassandoli al filo del giudizio morale, con il ricorso alla pietà, allo sdegno, alla comprensione ecc. Si sforza di completarli idealizzandoli. Ed è a questo punto che detti temi dimostrano di non essere autosufficienti. Ed è a questo punto che lo scrittore dimostra di non avere l'atteggiamento della realtà ma quello dell'idea. [...] Compito dello scrittore moderno è effettuare il recupero della realtà, liberandola dalle apparenze (false), in cui si manifesta. Svestire i poveri come i ricchi, perché i loro abiti non sono più portatori di significato, questo è quanto è tenuto a fare.

                                                       Angelo Guglielmi,
                                                      (Il nuovo realismo, 1964)

6 commenti:

  1. Aggiungo qualche mia digressione che spero non travalichi troppo (o non sia gradita).
    Mi par di capire che nel nuovo realismo propugnato da Guglielmi non contino certi vecchi canoni, si debba cioè dar peso a prerogative poco apparenti, più nascoste o sottotraccia, ma non meno importanti. Parlare d’altronde di ricchi o poveri, belli o brutti, buoni o cattivi, non agevola nessuno (men che meno la comprensione, per via degli stereotipi), meglio sottilizzare su dirimenti questioni, quelle che rendono gli uomini o i fatti più veri.
    Però l’idealizzazione cui si accenna, la stilizzazione per uno scrittore, ben si attaglia ad altre forme narrative.
    Qualcuno sostiene che il realismo in fin dei conti non dovrebbe raccontare la realtà ma ciò che lo sembra: la verità è ben rappresentata dal senso comune che è poi il punto di vista della maggioranza. È ovvio poi che ognuno di noi avrà la sua personale opinione, sembra quasi di discutere dell’origine della vita, se è nato prima l’uovo o la gallina e, perché no, dell’esistenza della Befana.
    Questi sono temi molto dibattuti che affondano le radici nelle diatribe tra diverse correnti letterarie; nello specifico caso sembrano scaturire dalla reazione al (post)modernismo che nelle sue varie forme ha scocciato tutti, lettori e scrittori: è difficile, complesso, impegnativo: richiede una dedizione che al giorno d’oggi nessuno ha più (è la frenesia dei tempi, la necessità di semplificare, catechizzare). Ma per farlo si devono addurre temi seri, nuovi criteri, il superamento dei canoni appunto: non basta denominare nuovo quel che non è.

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    1. Non mi interessava il passaggio per il sotteso milieu che lo origina (diatriba sperimentalismo neorealismo datato all'epoca che l'ha prodotto), anche perché per Guglielmi il tutto ha notoriamente connotato ideologico (il suo concetto realista) ma l'aspetto interessante risiede nella presunta autosufficienza di un dato di realtà preso come spunto narrativo. Oggi ad es. certa romanzeria stagionale sui mali dell'epoca (il precariato, il disorientamento dei 30enni-40enni) lavora in questo senso: adottare un dato di realtà come (presunto) autosufficiente credendo certi romanzi, puramente prodotti storicizzati di tipo socio-psicologico, quindi sintomo di un'epoca, valori invece estetici metastorici. Scorgere un valore in sé in qualcosa che è solo sintomo al di fuori di sé.

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    2. Scusa ma cambio di nuovo discorso e mi piacerebbe avere la tua opinione.
      Stimolato dalle tue osservazioni, mi sono imbattuto in un’intervista rilasciata da Angelo Guglielmi.
      In tempi abbastanza recenti (maggio 2010), egli sembra prendere le distanze da alcune scelte o impostazioni del Gruppo 63, quelle basate sul concetto di romanzo moderno ad esempio, “[…] auspicando un romanzo senza trama, che non raccontasse, scritto di parole che non dicono ma fanno. […] Legavamo la qualità del romanzo alla sua illeggibilità. Pensavamo che essere leggibili voleva dire cedere al facile, al consolatorio.” Ora egli ammette i romanzi con trama, strutturalmente animati da grandi sforzi narrativi, si affida alla realtà pur non come fatto ma quanto concetto: fa un passo indietro insomma.
      Ma forse mi sbaglio perché Guglielmi alla fine esalta Fratelli d’Italia di Arbasino: se c’è un romanzo controcorrente (ma profondamente ispirato alle linee guida del movimento) è proprio quello: racconta di un mondo contemporaneo (reale?) con le sue aberrazioni, ma ciò è solo il contorno.
      Ho una gran confusione in testa. Io sono cresciuto sui principi del 63, perbacco! Mutare opinione va bene ma stravolgere le cose mi sembra esagerato, qui si cambiano le carte in tavola.
      È forse che un critico possa accettare e condividere diverse opinioni o punti di vista, mentre un autore debba fare delle scelte precise? Tu che ne pensi?
      La fonte è: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/05/05/angelo-guglielmi-errore-del-gruppo-63.html

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    3. L'abiura del (o meglio il congedo dal) neoavanguardismo da parte dei suoi stessi componenti non è novità. Umberto Eco l'ha fatto scrivendo "Il Nome della Rosa" trent'anni fa, con la creazione del best-seller di qualità, così definito in molte antologie.Il recupero della forma-romanzo, della famigerata trama solida (di cui si sta parlando anche in questi tempi di prosa imperante camuffata da romanzo) è altro tema vecchio. Arbasino d'altronde in "Fratelli d'Italia" non solo mimeggia il troncone dell'Ur-romanzo per antonomasia (il Satyricon), ma definisce in un passaggio il romanzo in modo nitido: un corridoio (la trama) per entrare nelle stanze concettuali che all'autore interessano. Il punto dirimente è sempre lo stesso: lo scrittore che parte dal presupposto di operare un corpo a corpo con la realtà dei suoi tempi, se lo fa in modo aprioristico, rischia di sfasciarsi nel farlo, qualunque modulo adotti, proprio perché s'illude dell'autosufficienza del dato di realtà, di qualunque realtà. Quasi a volerla interrogare perché depositaria di risposte. Non è un caso che nello scritto che cito Guglielmi definisca scrittore finto-realista, perché moralista, Moravia, e esempio di veri realisti Vittorini, Calvino e....Gadda. Definire Gadda realista è esempio chiaro di questo discorso. Arbasino stesso ha creato uno dei romanzi che pur slabbrati nella trama (sul tema odeporico e di frivole divagazioni) per i motivi di cui sopra rappresenta assieme alla "Vita agra" e ai "Divini mondani" la migliore pittura 'realista' della transizione degli anni '60. Personalmente, tornando a Eco, nel pubblicare le famose postille al "Nome della Rosa" da ex-avanguardista fornisce una definizione del mestiere della letteratura nell'epoca post-moderna, o meglio tardo-moderna, che ritengo esemplare, condivisibile o no, ma inteso in quella logica di eversione dal totem dell'illeggibilità innalzata a feticcio autoassolutorio, compiaciuto e sterile, in cui qualunque fiammata avanguardista presto o tardi finisce per intubarsi. Una definizione che può apparire blasfema nell'evocare la parola 'letteratura popolare', al contrario ha un connotato politicamente sovversivo proprio nel mirare al cuore del problema a fronte della desertificazione massificante nella quale oggi rispetto a 30 anni fa ci siamo cacciati:
      "[...]raggiungere un pubblico vasto e popolare i suoi sogni, significa oggi forse fare avanguardia e ci lascia ancora liberi di dire che popolare i sogni dei lettori non vuol dire necessariamente consolarli. Può voler dire ossessionarli".

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    4. La tua analisi critica mi sembra letterariamente perfetta. Mi verrebbe da esprimere qualche considerazione sulle postille di U. Eco, ma temo che la cosa diventi stucchevole (come il mio stile d’altronde). Alla prossima.

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  2. Ogni epoca detta i suoi "temi". L'artista deve trovare la sua strada, stando attento sia all'adeguarsi al tema dato, sia dallo sforzo volontaristico di non adeguarsi. Forse si potrebbe dire che dovrebbe infischiarsi dei temi dettati dalla sua epoca, vivendola intensamente.
    Boh, non so voi, ma io tutto sommato mi sono capito.

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