mercoledì 7 marzo 2012

Galeotta fu Rebibbia...



A proposito di incandescenza (cinematografica). Sono appena tornato dall'Arlecchino, unico cinema meneghino a dare Cesare deve morire. Non amo granché il cinema né lo frequento, di carcerati recitanti esperienze in passato ce ne sono state molte (ricordo alcune cose del carcere di Volterra), ma qui è davvero....non so, vorrei dire potente, ma gli aggettivi servono a poco. Anche sporco, luminosamente sporco, il gioco del dentro-fuori, realtà-finzione, la petrarchesca grazia dei dialetti, la metanarrazione, l'assenza di qualsiasi sbavatura neorealista (pur nel bianco e nero citazionista) e soprattutto, dio, soprattutto certi attori. Avevano quella leggerezza che un attore raggiunge, se la raggiunge, solo recitando assai e vivendo assai, loro l'avevano senza impaccio. Quali attori in gattabuia. Quanti a piede libero. Purtroppo.

2 commenti:

  1. Avrei voluto postare io qualcosa a riguardo. Ho dovuto anch'io cercare l'arlecchino su google maps, ma ne è valse decisamente la pena. Mi piacerebbe tanto sentire l'opinione di Franco a riguardo, perché oltre alla recitazione, la cui qualità giiustamente Danilo ha sottolineato, a colpirmi è stata la straordinaria intensità dell'insieme. Questa commistione teatro-cinema dove i due elementi si compenetrano senza sopraffarsi per me è qualcosa di inedito e terribilmente ben riuscito. (Notare tra l'altro come il discorso rientri nel tema del nascituro editoriale...). Ho letto qualcuno che si lamentava dicendo: Shakespeare è già Shakespeare, non c'era bisogno di tutto il resto. Forse da un certo punto di vista ha ragione. Ma quanta espressività e intensità aggiunge la recitazione in dialetto? Quanto la scenografia itinerante tra le celle? Quanto il gioco della doppia finzione teatro-cinema-triste realtà della prigione? Meraviglioso, davvero meraviglioso. Un applauso ai Taviani e un invito agli altri vederlo al più presto.

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  2. Ahi Edoardo mi tiri in ballo ma non vidi l'opera, non ancora almeno, mea culpa. Ho sentito solo una bellissima intervista ai Taviani a Hollywood Party su radiotre. E poi ho letto una recensione entusiasta ma con riserva su doppiozero.com... Per ora faccio da sponda ad altre voci; comunque devo dire che anche a me non entusiasma il cinema come linguaggio, quello che mi manca lì è l'energia fisica degli attori. Mi ha colpito però che nessuno abbia fatto cenno ad Armando Punzo, il regista che lavora da almeno 30 anni nel carcere di Volterra (ne ha accennato Danilo). Costui ha prodotto lavori teatrali straordinari con i carcerati, ma nè i Taviani, nè i critici cinematografici, nè tantomeno il pubblico sembrano saperlo... In fondo il teatro in carcere si fa anche perché Punzo e tanti altri come lui intorno alla fine degli anni '80 primi '90 hanno cominciato a fare, senza chiamarsi Taviani, un lavoro duro e umile e per molto tempo non riconosciuto nelle carceri di Volterra, Bologna, Rebibbia ecc...
    Ci risentiamo appena avrò visto l'opera.

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