Chissà perché, ma alla fegatosa, corrucciata, teologica e moralistica satira di Giovenale, quella del dito indice puntato, del manicheismo letterario, ho sempre preferito, to', al limite anche il sorriso scanzonato di un Marziale, ma sempre più la leggerezza olimpica, tesa e profonda del grande Orazio. Quella capacità di smascherare i vizi e i vezzi altrui mettendocisi dentro a pieni mani, non escludendosi (si pensi a quel gioiello della settima del secondo libro delle Epistulae con lo schiavo Dama a sbeffeggiarlo, l'autoironia, l'autodissacrazione). Dico questo perché mi desta sempre un po' di perplessità certa postura ieratica, sacerdotale, mistica, palingenetica nella letteratura. L'incapacità di scovare nel tessuto genetico della parola letteraria, soprattutto nella finzione romanzesca, il connotato parodico, profanante, giocoso, che non vuol dire svagato e faciniente, ma anzi dolorosamente consapevole delle proprie ferite. Forse perché stento a capire come si possa pretendere dal romanzo, dalla finzione, assunti di verità finita, manipolanti la realtà. Pretese di governo e rigoverno del mondo. Ricorrere alla menzogna per cambiare il mondo non al limite come atto succedaneo e ex post, ma addirittura come pretesa in origine, ab ovo. Capisco spesso l'anagrafe, la giovinezza, che talvolta si dipana fra chi s'accoda a oasi comunitarie, messianiche e rigenerative, e chi s'isola nell'anarchismo individualistico (sono appartenuto a quest'ultimo gruppetto). Comunque in merito a certe ansie sempreverdi di letteratura realistica, similrealistica, similimpegnata, post-neorealistica, combattiva, risorgente, mistico-ieratica, che usa la menzogna del romanzo per farsi procreatrice di verità rivoluzionarie, dedico questo pensierino mio mattutino, surrogato da ben altra tempra meditativa, quella che segue.
Nulla è più mortificante che vedere narratori, per altro non del tutto negati agli splendori della menzogna, indulgere ai sogni morbosi di una trascrizione del reale, sia essa documentaria, educativa o patetica. [...] Sebbene siano costretti a mentire, come vogliono le punitive leggi delle lettere, lo fanno con angustiosa cattiva coscienza, palesemente soffrendo sotto la coazione della frode, e inefficacemente nascondono l'autentico nocciolo di menzogne sotto un velo di una fittizia verosimiglianza
Giorgio Manganelli, La letteratura come menzogna
Pardon...non Epistulae ma Sermones o Saturae che dir si voglia...
RispondiEliminaSono d'accordo fondamentalmente, caro DL, ma ho anche molto, molto odiato gli eccessi dell'ironia e dell'autoironia novecentesca. Orazio si è inacidito nel secondo Montale, per dirla in poesia. E molte volte dietro l'ironia c'era saccenza autocatelata, di chi distrugge senza voglia di creare nulla, per voluttà funerea. Per questo all'ironia preferisco la comicità. Ma è solo questione di capire quale fantasma mettiamo dietro a certe parole, mi sembra. Sono anche consapevole che in tal senso il percorso di Atelier sia finora stato anche fin troppo "serioso", proprio per reazione a quanto detto sopra, e per spirito combattivo e necessità di conquista di una certà credibilità critica - e per varie altre ragioni. Anche per questo sono lieto della nostra nuova rubrica "Lime (e more)", che ci permetterà di mostrare anche l'anima ludica, leggera e divertita (benché, speriamo, sempre intelligente, mai superficiale) del nostro lavoro...
RispondiEliminaCerti bagordi novecenteschi si sono irrimediabilmente inumati, credo, dopo le neoavanguardie. E a buon diritto. La parodia, il ribaltamento che dà svelamento, è secondo me l'asse maestro al quale mi riferisco, e che sempre è esistito in ogni epoca letteraria ciclicamente accanto a una linea diciamo più seriosa (spesso alternandosi nell'opera di uno stesso autore, nella sua stessa pagina). I vasi canopi di cui parla Rabelais nell'esordio della sua epica mirabolante. Quello che temo o meglio che mi rattrista, è travasare nella letteratura un certo ottundimento che sfocia talvolta nel fanatismo, nella carboneria letteraria. Il che suona alquanto misero, penoso.
EliminaCaro D.L.,
RispondiEliminasai che in altre epoche o periodi ben più intransigenti (meno illuminati o illuminanti), rischieresti il rogo degli eretici tal quale un Bruno Giordano siffatto, o l’inquisizione da Sant’Uffizio d’una querelle galileiana? salvo l’abiura dacché proclamata di tanto veemente inclinazione alla finzione, al travisamento o alla provocazione tout court.
Sia chiaro che a me sembra che, su certi argomenti, la dobbiamo pensare (la pensiamo?) in egual maniera, ovverossia sulle finalità di un opera letteraria come il romanzo, di qualsivoglia corrente, che possa rappresentare la realtà ma non la verità, ad esempio, che non ricorra a un uso infausto del moralismo, che rifugga gli stereotipi o le anonime convenzioni, che proponga insomma un promulgato spirito rinnovativo (non palingenetico, se vuoi).
Perciò, che la finzione sia pur “ab ovo o succedanea” al processo creativo, e possa promuovere qualche cambiamento (per non dire rivoluzione), mi par cosa legittima da sostenere, innanzi tutto nei confronti del lettore che si vorrebbe trascinare sempre sulla retta via (la propria).
Van bene i distinguo tra satira e ironia, tra manicheismo e il suo contrario, della leggerezza o giocosità verso il corruccio o la manfrina, sullo stile o la modalità di portare avanti le proprie idee, di infondere o incutere un punto di vista, ma quel che non mi è chiaro (tu non lo dici) è il confronto con tanta letteratura moderna che parrebbe poco motivata a cambiare le cose, altresì destinata a surrogarne i concetti (che a mio parer è ben più grave).
Tu butti un sasso nello stagno, poi aspetti che qualcosa venga a galla…
Ti invito a voler meglio esplicare il tuo pensiero, fornendo qualche esempio attuale (più che la classica letteratura d’altri tempi), se non è chieder troppo o la cosa non debba esporti a un discutibile (e non voluto) pronunciamento.
Magari lassù sul patibolo potremo insieme lanciare il nostro grido: “Eppur si muove!”
Il pensierino nasceva dallo scambio di battute di qualche postillo prima, in merito al "Primo Amore", al fatto di corrucci provocati forse dal mio improvvido aver toccato la musa moresca e tanto ieratismo pasoliniano, quello dei santini letterari, della sovversione contro il sistema elevata a dogma. Ma in fondo quello che scrive Manganelli lo scrive molti decenni or sono e vale oggi come ieri come domani. L'idea in soldoni è la seguente: se è pur vero che tanta letteratura oggi è cariata dal commercio, certe reazioni sovversive, urticanti, ribellistiche, presunte marginali, sono uguali e contrarie, quasi reazioni allergiche, di resistenza epidermica. Legittime, per carità, ma col rischio di sfociare in una visione bipolare, dogmatica: se non aderisci a un certo tipo di letteratura (quella apocalittica, 'impegnata', realista ecc.) allora vuol dire che naturaliter sei dall'altra parte, sei uno svagato, un letterato perditempo, magari un umanista pennivendolo. Insomma si finisce per arrivare verso una letteratura in bianco e nero, manichea appunto. Per me vale il principio della legittimità: in letteratura, specie nel romanzo, la finzione regna, per cui ogni finzione è legittima. Ciò che ne decreta il valore e la misura di necessità o permanenza, è ben altro. La sua capacità di incidere profondamente nell'immaginario, di sedimentare immagini e parole resistenti all'usura, di creare mondi immaginativi non effimeri, solidi. Il resto è solo postura intellettualistica, impostura morale talvolta. Presunta superiorità di razza. Ma tali dicotomie, specie nella letteratura dell'ultimo secolo, sono abbastanza ricorrenti e gli autori solitari, non inquadrati, faticano, e faticheranno sempre, a districarcisi in mezzo.
EliminaÈ bello vedere che basta infilare un gettone e il jukebox ricomincia a suonare. Si dà il la ed esce un profluvio di parole, talvolta un po' oscure (per me) ma sempre stimolanti. Comunque ho capito il nesso con il post precedente e ti ringrazio per l’approfondimento. Una curiosità, come mai ti firmi soltanto con le iniziali (se è lecito saperlo)?
Eliminacerco di praticare l'arte della disparizione...solo le parole contano.
RispondiEliminaGià. Ci vorrebbero più Manganelli, oggi. E non intendo quelli della polizia. La cattiva coscienza del cattivo realismo è come la betise di Flaubert (o forse è la medesima cosa): un catalogo senza fondo di stupidità. Molto spesso, di cliche di finzioni prese per realtà.
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