martedì 25 settembre 2012

In morte di un poeta

Il cerchio mi pare definitivamente chiuso – con disperante e anche un po' comica autoreferenzialità. Mi spiego. Dopo gli anni in cui sembrava che la poesia, secondo la vulgata più diffusa da certo giornalismo generalista impettito e sornione, si fosse tutta trasferita dalle parti del cantautorame italiano, che collocava De André sull'olimpo della hit parade poetica del contemporaneo; dopo che intellettuali prestati alla pop song avevano salutato come eredi del poeta di Recanati paraculi e furbetti autori di canzoncine rimate come filastrocche ebeti, e sulla scorta di ciò addirittura inventato un premio, confermando in tal modo il carattere di “borgo selvaggio” già attribuito ai suoi tempi dal sommo recanatese al paese poi sede del famigerato anzidetto premio; dopo aver sentito per anni usare la parola “poeta” sempre in senso traslato (anche il macellaio era un Poeta della bistecca, secondo certo giornalismo “critico”) come di colui che si occupava di creare immaginette non troppo lontane dal senso comune e dallo spirito dei tempi in modo da non dare eccessivo fastidio, e d'altro canto, non così vicine ai valori (o dis-valori) dell'epoca da scomparire, come sarebbe stato giusto, nel mainstream della banalità multifunzionale; dopo che schiere di sedicenti critici musicali hanno provato l'ebbrezza di assumere i panni del critico letterario intento alle analisi più fini dei testi del cantautorame italiano, e mentre un altro lembo di ciò che si usa chiamare “poetico” rimaneva impigliato nell'industria della nostalgia alimentare prodotta dai biscottini dei bei tempi andati che dipinge i mulini di bianco – o meglio ne ridipinge solo le facciate perchè rimanga ben nascosta la ruvida concretezza di un mestiere e di una macchina niente affatto “poetici”; infine, dopo che - udite udite! - il più sopravvalutato e insulso di questi finti poeti dalle sei corde, alle soglie della decrepitezza fisica, come pentito di aver preso per i fondelli nei decenni tutti i devoti baciapile dell'autorale corte canzonettistica italiana, è cioè Francesco De Gregori, ha dichiarato (durante l'ultimo festival del Cinema di Venezia mi sembra), di non essere mai stato un poeta, e dare così un soffio di speranza all'eventualità che la grande truffa dell'italico pop song d'autore venisse finalmente smascherata ed emergesse la ridicolaggine di quanto sostenuto per anni, ecco invece prodursi improvviso un evento che rimette in funzione la grande truffa con nuove, dolci attrattive. Un evento attraverso cui pare aprirsi la nuova era in cui i poeti veri potranno sperare nel riconoscimento sommo esclusivamente in qualità di autori dei testi delle canzoni di un qualsiasi cantautore celebre (o del più celebre dei cantautori qualsiasi). Il mirabile evento si è prodotto per mano di un giornalista, di cui pardon non ricordo il nome, in un pezzo pubblicato su La Stampa qualche giorno fa. L'occasione del pezzo, la morte del poeta Roberto Roversi. Con una torsione notevole del senso e del destino di un'intera vita spesa per la poesia (vera) e per i libri (veri) che ha fatto di Roversi un maestro appartato ma non meno presente sulla scena della poesia italiana contemporanea, e dopo aver dedicato solo le prime righe e poi più nulla al risibile fatto che il poeta fu animatore insieme a Pasolini, Leonetti, Fortini, Romano, Scalia della rivista Officina, il cronista dedica gran parte del pezzo all'incontro, cardine di tutta la poesia italiana più recente, tra Roversi e il cantautore felsineo Lucio Dalla. Talmente importante e decisivo appare, agli occhi del cronista, l'incontro fatale e la frequentazione artistica tra i due – in verità piuttosto breve nel tempo se paragonata alla lunga vita di Roversi, spentosi all'età di 89 anni – da ispirare all'estensore dell'articolo una spericolata intuizione - che verrà certamente ripresa da tutte le storie letterarie future come esempio del vincolo profondo che la poesia sa creare nei suoi sacerdoti più puri. L'intuizione sarebbe tutta contenuta nella stuporosa, meditabonda e commossa constatazione che il vecchio poeta se n'è andato – ma guarda il caso! - proprio pochi mesi dopo la morte del caro e compianto autore di “Caruso”. Del resto, si sa, tutti i legami forti conoscono questo tipo di destino. Uno dei due muore e dopo pochi mesi – paf! - tocca all'altro. La vogliamo smettere con il solito, frusto sport del cinismo, con il consueto happy hour dello snobismo e vedere finalmente con un po' più di lucidità come stanno veramente le cose? Possibile che non si voglia fare il minimo sforzo per sottoscrivere e diffondere una verità tanto evidente? Eppure il fatto è sotto gli occhi di tutti: Roberto Roversi è stato il paroliere di Lucio Dalla - punto e basta!

4 commenti:

  1. Anche se la circostanza ed il modo come i giornali e l’informazione in genere ci hanno parlato di Roversi e di conseguenza hanno offerto –giustamente- spunti polemici in abbondanza…non mi pare opportuno insistere, arrabbiarsi, perdere le staffe… Non serve.
    Perché non ricordiamo invece con una poesia o con un saggio critico non particolarmente dotto e solo per addetti ai lavori il grande poeta? Io ci provo.
    Diceva R. Roversi: "Non si dà letteratura se non si è ben dentro, con piedi, mani, braccia, naso, occhi e orecchie, nella società. Nel quotidiano, per la strada, anziché dentro alle stanze con le finestre chiuse"
    (Dall’intervista rilasciata a Carlo Ruggiero,2005.)

    MI FERMO UN MOMENTO A GUARDARE

    Non correre. Fermati. E guarda.
    Guarda con un solo colpo dell’occhio
    la formica vicino alla ruota dell’auto veloce
    che trascina adagio adagio un chicco di pane
    e così cura paziente il suo inverno.
    Guarda. Fermati. Non correre.
    Tira il freno alza il pedale
    abbassa la serranda dell’inferno.
    Guarda nel campo fra il grano
    lento e bianco il fumo di un camino
    con la vecchia casa vicina al grande noce.
    Non correre veloce. Guarda ancora.
    Almeno per un momento.
    Guarda il bambino che passa tenendo la madre per mano
    il colore dei muri delle case
    le nuvole in un cielo solitario e saggio
    le ragazze che transitano in un raggio di sole
    il volto con le vene di mille anni
    di una donna o di un uomo venuti come Ulisse dal mare.
    Fermati. Per un momento. Prima di andare.
    Ascoltiamo le grida d’amore
    o le grida d’aiuto
    il tempo trascinato nella polvere del mondo
    se ti fermi e ascolti non sarai mai perduto.

    E nella quarta delle Trenta miserie si legge un inciso inatteso, che sembra un programma, un compito per chi resta, e che propone una dimensione non consueta di Roversi, quasi una esplicita volontà di testamento, la consapevolezza che la poesia non è un fatto privato e che, forse, per chi resta, non ci sia altro che ostinatamente continuare...:

    Parlare continuare a parlare senza sapere come parlare
    scrivere continuare a scrivere senza sapere come scrivere
    pensare continuare a pensare non sapendo cosa pensare e
    continuare a voler sapere senza sapere che cosa sapere.Roberto Roversi

    da M.Grazia Ferraris

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    1. Hai ragione Maria Grazia. Meglio lasciare la bile al suo posto. Per rimediare rimando a un link dove è ancora un poeta (Giuliano Scabia) a parlare del poeta Roversi.
      Saluti
      http://www.doppiozero.com/materiali/editoriale/un-poeta

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  2. Sono d'accordo, Franco. Il problema è il solito, dare alle cose (scritte) il peso che meritano. Non credo si possa pretendere che il pubblico più ampio possa comprendere quale sia la buona e quale la cattiva poesia. O meglio, quale sia la poesia e quale la canzonetta, la roba finta o proprio la schifezza che va a capo ("Oggi per essere un poeta basta andare a capo", dice giustamente Giuliano). Io stesso ho spesso grosse difficoltà a rendermene conto, come immagino tutti noi, almeno qualche volta.

    D'altronde è il prezzo da pagare se si vuole un'informazione democratica, no? Che bel mondo sarebbe se tutti, proprio tutti avessero una consapevolezza letteraria di qualche genere, autentica... Più buono, sarebbe. E più giusto.

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    1. Sì però parliamo di un quotidiano come La Stampa, e nelle pagine della cultura. In quel contesto non sarebbe così strano pretendere un po' più di competenza e un po' meno faciloneria, non trovi?

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