lunedì 3 dicembre 2012

Lo stile Flaubert

Manco da un po' e ritorno per dire una banalità, forse.
Ogni volta che mi ricapita tra mani Falubert (il Flaubert maggiore, intendo, quello di Madame Bovary e della seconda Educazione sentimentale) non posso fare a meno di pensare che la sua opera sia un (forse il?) supremo esempio di stile. Lasciamo stare i contenuti, dico dello stile nudo e crudo: della misura della frase, della cadenza della punteggiatura, del respiro dei paragrafi. E così dico anche del peso che quello che passa per quella penna viene ad assumere; perché trattata con enorme rispetto, qualsiasi cosa dischiude al lettore tutto il suo peso.
Dono? No. Lo stile del Flaubert non-"naturalista" è tutt'altra cosa, tra il prolisso e l'ampolloso. Sono gli anni dedicati a quelle opere a conferire quella schietta nobiltà al tutto. Ore di sudore su ogni frase e lime interiori lisce. Che poi credo sia quello che manca al maggior parte dei narratori di oggi che mi capitano sotto gli occhi. E sto continuando a parlare solo di stile, naturalmente. Se aprissi al contenuto e dicessi quel che penso, mi renderei antipatico.
Fatemi sapere se ne pensate qualcosa. Una notte fecondamente insonne a tutti.

3 commenti:

  1. Caro Edo, recupera (se non l'hai già), "Tre racconti", meglio se nell'edizione einaudiana (collana "Scrittori tradotti da scrittori", trad. Lalla Romano).
    Lì, credo, lo stile di Flaubert raggiunge le più alte vette.

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  2. Molto interessante, a questo punto, sarebbe aprire il dibattito sull’importanza dello stile nella narrazione contemporanea ben più libera e scevra di legami paradigmatici che non nel passato.
    Butto giù qualche breve considerazione.
    I classici hanno la loro influenza, in quanto precursori e, come Flaubert, innovatori per il loro tempo, volti ad inseguire nuovi dettami scientifici o filosofici quand’anche dei veri e propri cambiamenti morali.
    Ciò che caratterizza lo stile di Flaubert, la pervicace ricerca del “mot juste” non può però diventare un’ossessione, la qual cosa ricorda più il bisogno di perseguire un mito, la determinazione di un assoluto che sostenga e suggelli l’opera. Un buon lessico dovrebbe bastare, un affinamento con un attento lavoro di revisione (un’aggiustata qua e là).
    Ogni scrittore deve compiere piuttosto un’operazione parallela alla sua primaria attività di romanziere, fatta di esercizi di stile (per l’appunto), di esperienze che poi andrebbero portate sulla carta (nell’opera definitiva) al momento opportuno.
    Inoltre ci si potrebbe chiedere quanto la scelta di uno stile condizioni la narrazione stessa, perché se si decidesse, ad esempio, di adottare uno stile realista (o parimenti naturalista, proprio per restare in tema) ci si dovrebbe adattare ai principi dell’omonimo movimento (uno dei tanti). D’altronde è ciò che può anche determinare l’accettazione da parte del pubblico.
    Senza sminuirne il significato, possiamo accettare il concetto di “stile uguale linguaggio”, in termini di tecnica di scrittura, adattandolo alle condizioni ritenute opportune (alte, medie,basse) come facevano gli antichi.
    Vero è che ogni parola vada soppesata in tutti i suoi valori semantici, sonori, estetici, nonché per la giusta cadenza di ritmo: una casistica pressoché infinita.

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