mercoledì 30 gennaio 2013

Per la memoria


“Secondo una teoria in voga in quegli anni, e che a me pare frivola ed irritante, l'«incomunicabilità» sarebbe un ingrediente immancabile, una condanna a vita inserita nella condizione umana, e in specie nel modo di vivere della società industriale: siamo monadi, incapaci di messaggi reciproci, o capaci solo di messaggi monchi, falsi in partenza, fraintesi all’arrivo. Il discorso è fittizio, puro rumore, velo dipinto che copre il silenzio esistenziale; ohimé, siamo soli, anche se (o specialmente se) viviamo in coppia. Mi pare che questa lamentazione proceda da pigrizia mentale e la denunci; certamente la incoraggia, in un pericoloso circolo vizioso. Salvo casi di incapacità patologica, comunicare si può e si deve: è un modo utile e facile di contribuire alla pace altrui e propria, perché il silenzio, l’assenza di segnali, è a sua volta un segnale, ma ambiguo, e l’ambiguità genera inquietudine e sospetto. Negare che comunicare si può è falso: si può sempre. Rifiutare di comunicare è colpa; per la comunicazione, ed in specie per quella sua forma altamente evoluta e nobile che è il linguaggio, siamo biologicamente e socialmente predisposti. Tutte le razze umane parlano; nessuna specie non-umana sa parlare.
Anche sotto l’aspetto della comunicazione, anzi, della mancata comunicazione, l’esperienza di noi reduci è peculiare. È un nostro fastidioso vezzo intervenire quando qualcuno (i figli!) parla di freddo, di fame o di fatica. Che cosa ne sapete, voi? Avreste dovuto provare le nostre. Per ragioni di buon gusto e di buon vicinato, noi cerchiamo in generale di resistere alla tentazione di questi interventi da miles gloriosus; la quale, tuttavia, per me diventa imperiosa appunto quando sento parlare di comunicazione mancata o impossibile. «Avreste dovuto provare la nostra»”.

 (da Primo Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi 2007, Cap. IV. Comunicare, pp. 68-69)

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