venerdì 25 gennaio 2013

The Master





C'è una sequenza, verso l'inizio, dove Phoenix scappa per scale, corridoi e gallerie buie da un branco di orientali incazzati, si infila in un portone e scappa in un campo. La telecamera lo segue alle spalle mentre si infila tra i battenti. Phoenix corre fuori, nella luce grigia, mentre l'inquadratura avanza lentamente nella fessura, scoprendo a poco a poco il campo al di là, affogando lo spettatore nella nebbia azzurrina di un terreno brullo, arato di fresco. (Si intravede anche nel trailer, verso 2.15). Phoenix corre, lo spettatore lo vede in lontananza e affoga nel biancazzurro. E' uno stacco magistrale, ed è da cose come questa che si comprende la grandezza del cinema di P.T. Anderson: pensiero, densità e, per prima cosa, amore per l'immagine (soprattutto qui e ne Il Petroliere, meno in film precedenti e più corali come Magnolia o Boogie Nights). C'è un'ottima direzione della fotografia, è vero, ma è la mano del regista ad avere il peso determinante nel dare uniformità e peso al tutto.
In questo senso ne parlo qui. Perché ci vedo molto di letterario nella realizzazione di un film del genere.
Anderson ha un vero talento descrittivo nella definizione degli spazi, nella scelta degli ambienti e nella selezione dei particolari della scena su cui focalizzare l'attenzione; e questo, mi pare, è un talento propriamente letterario, di quelli che procurano sensazioni complesse, profonde e improvvise.
C'è poi un Phoenix sciamanico, con un'interpretazione immersiva, come quella di D.D. Lewis nel Petroliere (Anderson li vuole così: l'attore entra nel personaggio per due-tre mesi h24, gira il film, e poi ritorna quello che era, per ritirare la Coppa Volpi, come ha già fatto, o l'oscar - sempre che l'Accademy non preferisca, cinque anni dopo appunto Il Petroliere, premiare di nuovo Lewis-Lincoln del più "americano" Spielberg).
Il Maestro è P.S. Hoffman. Checché ne dica Anderson, i punti di contatto tra la vicenda del personaggio e la vita di Hubbard, il fondatore di Scientology, sono così macroscopici da non poter essere ignorati. Non è un film biografico, naturalmente, ma Anderson deve avere pensato molto a Hubbard e alle sue dottrine scrivendo la sceneggiatura.
Ecco, forse è questa la nota dolente: la scrittura. Il vero freno di The Master è una parte centrale un po' fumosa, con dialoghi poco incisivi e un andamento saltellante molto suggestivo, ma che qualcuno potrebbe trovare dispersivo, de-focalizzante. Forse Anderson, che in questo è un regista decisamente accentratore, potrebbe aprirsi un po' di più a collaborare con altri nella stesura della sceneggiatura. Ma tant'è: per un prodotto artistico di questo livello (ecco, stavo dimenticando la straniante colonna sonora di Johnny Greenwood, non per niente testa pensante dei Radiohead) lo spettatore può scendere a compromessi su qualcosa. Phoenix con la testa sulla sabbia, alla fine, o la scena del carcere, o l'arrivo sulla nave, o l'intera sequenza iniziale: questo è cinema. Scene pesanti, personaggi a tutto tondo, comunicazione emotiva giocata meglio sui silenzi, sulle inquadrature e sulle espressioni che non sulle parole.

3 commenti:

  1. E io che mi preoccupavo della tua latitanza al telefonino e alla casella di posta elettronica... Non è che Milano l'ha fagocitato, mi chiedevo. Macché, va al cinema, il ragazzo...
    E bravo Edo.
    AT

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  2. Uh? Che Milano mi ha fagocitato è vero, ma il mio telefonino tace.

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  3. Per e-mail ti chiedevo un controllo del numero, infatti, ma la mail è tornata indietro...
    AT

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