giovedì 11 aprile 2013

Morte dell'arte contemporanea?

Una donna addormentata in una teca. La teca esposta all'ingresso di un grande museo di arte contemporanea americano (il Moma di New York). La donna è un'attrice di cinema piuttosto famosa. La gente fa la fila per vederla. Il critico di un giornale nazionale italiano polemizza: morte dell'arte contemporanea. Avevo visto una cosa simile una ventina di anni fa al Link di Bologna (forse il primo spazio italiano di pura archeologia industriale dove si innestavano sperimentazioni d'arte concettuale, performance e musica nell'idea fondativa di una comunità trasversale e digitale all'alba dell'era di Internet): un ragazzo efebico, bellissimo, nudo, dentro a una teca, dormiva (faceva finta di), e nella teca, insieme a lui, zampettanti o striscianti lungo e accanto al giovane corpo, larve, scarafaggi, cavallette, vermi, ragni, biscie, lucertole. La teca era sistemata in mezzo a una stanza in penombra mentre, intorno, alcuni monitor televisivi mandavano le immagini delle ripetute operazioni di plastica facciale cui un'artista all'epoca famosa amava sottoporsi come forma estrema di body art. Ora, aldilà della reazione, epidermica o profonda di ciascuno (per me: repulsione e fascinazione ambiguamente mescolati), quella cosa dava un'idea di grandezza, di rischio, di messa in gioco totale, che è, alla fine, quello che si chiede all'artista: fare arte sulla propria pelle. So che la mia suonerà come un'affermazione provocatoria: ma come negare che una buona parte del fascino che emanano Van Gogh e Rimbaud provenga dalla performance di body art ante-litteram del primo quando si taglia l'orecchio, e dalla pistolettata a Verlaine o, in generale, dallo stravolgimento di tutti i sensi praticato e teorizzato dal secondo? Un'artista esplora i limiti. Ecco, allora, l'insopportabile sapore di mistificazione ipocrita di fronte a un'operazione come quella del Moma: al posto della grandezza nessun rischio, nessun coraggio, bassa furberia commerciale, senso distorto del gioco, strategia di marketing che si mangia il progetto artistico, equivoco ammiccamento al gusto mainstream scambiato per citazionismo della cultura pop, e altro ancora. Del resto, è quello che vedo in molta dell'arte contemporanea nella quale m'imbatto. Dell'artista coraggioso e provocatorio rimane una penosa parvenza: dalle opere s'intravede l'accorto amministratore di se stesso, della propria immagine, il tour operator del proprio mondo autoreferenziale. Il sentimento della realtà sparisce sotto la coltre del concetto e il concetto è già sparito da tempo sotto la cappa dell'autoesibizione o dell'intenzione allo stato puro. Ci vorrebbero artisti che si immolano. 
(pubblicato sul periodico Ecorisveglio) 

5 commenti:

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  2. Per quel pochissimo che conosco l'arte contemporanea, credo che sconti le stesse afflizioni di altre consorelle; gli anni 70, diciamocelo, è lì che finisce il 900, i suoi ultimi colpi di coda (che tali furono le neoavanguardie). Poi come avviene anche in letteratura si rimastica, si rimpiallaccia, per carità con esiti anche assai felici. Nell'arte contemporanea poi vige lo strapotere dei galleristi e dei critici d'arte (come editori e critici letterari) che fanno salire e scendere le quotazioni. L'arte concettuale, spesso performativa, degli ultimi anni non mi ha mai granché suggestionato. Viaggia tra provocazione gratuita e ripetizione usurata, senza quel sangue di cui tu parli, quel mettersi in gioco. Nell'arte contemporanea secondo me, in quanto arte materica (rispetto all'immaterialità della parola) la discrepanza è ancora più visibile. Nel 1995 andai con scettico entusiasmo a vedere la mia prima biennale; c'era un'istallazione, dove entravi in uno stanzone scuro, una macchina distributrice di coca-cola e punto. Titolo: "grazie per tutta la coco-cola che ci avete donato". Per carità sarcasmo sociale, quello che vuoi tu, però...nella stessa esposizione vidi per la prima volta Anselm Kiefer, che ho rivisto anni dopo. Ecco, qui la cosa è assai diversa; c'è consapevolezza di ciò che si fa e perché, usare mezzi spesso vetusti senza essere passatista.

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  3. Anch'io non sono un intenditore, Danilo, ma sono abbastanza allenato a percepire il puzzo di fumo quando l'arrosto non c'è più.

    A meno che esista qualcuno per cui, come per la Donna (secondo il Gaddus), il fumo non sia un gradevole presagio dell'arrosto...

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