domenica 7 aprile 2013

Una sacra rappresentazione (seconda puntata).

E' buio. Il prato si è riempito di gente. Sotto i piedi sento il viscido del terreno fangoso. Non piove. Ha piovuto. L'aria è fredda. Cerco l'asciutto. Paura di infangare le scarpe. Lasciti infantili. Mi trovo un posto dove posso mettere i piedi a secco. E' la canalina di gomma che racchiude la caveria dell'impianto. Non sono il solo sull'isola di gomma. Ma tra i naufraghi che vi han trovato asilo si fa finta di niente. Anche se poi formiamo una fila indiana che spicca nella distribuzione a macchia di leopardo del pubblico nel prato.
Poco prima avevo scambiato due parole con una signora seduta sulla panchina di fronte al palchetto del service audio-luci. Parlava al cellulare. A voce alta. “Sono uscita adesso, guarda... sì lo so che doveva venire... ma se io le andavo incontro poi mi toccava pagare per tornare qui... sai che è tutto chiuso no? poi mi fa: “voglio venire a vedere casa tua”... A me mi stanno sulle balle quelli che dicono così, no-o? Allora le ho detto di non stare a disturbarsi. Sì va bé, se vuoi venire io sono al Parco ***. Ciao”. La signora è una di qui. Saluta l'artigliere, che si è accollato il bazooka della macchina fotografica telescopica ultima generazione, mentre questi avanza verso la panchina sbilanciato in avanti da cotanto impianto: “in Valtellina al fioca” esordisce l'iperobiettivato, e poi mi guarda come a dire “tu che pensi?”. Ho infatti commesso l'errore di lanciare uno sguardo smarrito al bazooka e lui l'avrà preso per un moto d'ammirazione. Mi limito a mezzosorridere e distolgo lo sguardo.

Finalmente le luci di scena si levano e illuminano dal basso gli alberi dietro il tavolo. Belli gli alberi illuminati dai fari teatrali. Sono più veri. Adesso il tavolo, la scena - si illumina tutto. Poi sento un “no no no” a mezza voce, mi giro, e c'è uno degli artiglieri sul palchetto-service che dal giubbetto arancione si sbraccia verso una serie di fiaccole che hanno cominciato a muoversi e a prendere scena. Vedo il bianco degli occhi dei portatori di torce mentre torcono lo sguardo all'indietro nel tentativo di ritirarsi con nonchalance dallo spazio scenico indebitamente invaso. Ah ecco - dovevano aspettare la voce fuori campo che ora ci smicrofona altissima nelle orecchie un prologhino didattico su quello che andremo a vedere tra poco: l'Ultima Cena. Non si era capito. Coraggio – mi dico - è solo la prima scena.
In effetti la prima scena è dura da masticare. Ma c'è l'incanto dello spazio, degli alberi, degli oggetti illuminati a vita nuova dai riflettori: mi basta, anche se gli Apostoli stanno seduti come se fossero a una cena aziendale un pochino noiosa e compunta; indossano tuniche color terra di una bella stoffa pesante, ma si vede l'impaccio che provano sotto lo sguardo del pubblico; lungi dal tenerselo, l'impaccio, e di farlo uscire per quello che è, con la caratteristica personale che ciascuno di loro possiede nella vita – come le calate dialettali che sono belle in sé e non vanno corrette – cercano di nasconderlo recitando, seppelliscono la loro natura sotto una coltre di presunto savoir faire scenico, così l'effetto è doppiamente penoso (maledetta televisione!). Devo dire però che il Gesù e il San Pietro con le loro molto montanine parlate e i visi impassibili (forse a causa del fondotinta che imprigiona loro la pelle sotto uno strato brunastro?) hanno un che di arcaicamente popolare (per quello che può voler dire oggi quest'espressione): nella pronuncia del Gesù le “v” diventano quasi tutte “u”, com'è tipico della parlata di queste parti, avvicinando e addolcendo il personaggio. Così a partire da questo dettaglio fonico comincia a formarmisi nella testa l'idea che se il Sacro Monte di Varallo è qui vicino un motivo ci sarà; che forse la radice di quel meraviglioso teatro di pietra viva sarà sepolta un po' anche qua dentro, in questa recita che si annuncia lunghissima. Allora devo dimenticarmi dei microfoni, degli sfrigolii delle casse, delle voci amplificate che vanno e vengono, e dare invece importanza al fatto che quando le voci spariscono dall'impianto e ricadono preda dell'acustica naturale aprono di colpo un mare di suggestioni e rendono più concreto il dramma, altrimenti solo enunciato; al fatto che la serietà e la motivazione con cui queste centinaia di persone hanno lavorato per uno scopo comune - aldilà degli orgogli di campanile - contiene in sé un che di sacro. Sacro monte, sacro lavoro comune, sacro stare insieme, sacra fatica, dove forse le discordie si compongono secondo le tensioni del dramma, e dove le tensioni personali di quella comunità si possono almeno per un po' deviare, sospendere, alleviare? Sacra vacanza dall'ossessione dell'identità e dell'affermazione individuale? Da cui sacro teatro, sacro recitare, sacro stare ore e ore al freddo per costruire magari un solo momento memorabile...
Ma gli occhi sono traditori, è più difficile eludere la loro perenne malizia e irrequietezza, così che debbo fingere di non notare il baffo color carne dell'archetto che scava le guance di tutti gli attori; il trucco pesante sui volti, e insomma dimenticare che quello che vedo non dovrebbe assomigliare al set di Unomattina, tanto per dire, perché è invece il tempo-spazio dove si realizza la trasmissione di una tradizione pluricentenaria... Dunque sta' calmino, criticone delle mie scarpe infangate, e guarda aldilà del tempo, ficca il tuo sguardo nella catena delle generazioni passate, evoca il vortice dei tempi e stacci dentro; pensa agli attori di pietra del Sacro Monte, stabilisci continuità verticali e lascia perdere il frastuono dell'attualità...

1 commento:

  1. La tua chiusa dimostra una notevole sensibilità critica che trascende il semplice valore contenutistico.
    Per il resto confermo quanto sostenuto nel post precedente (quello della prima puntata): mi fa piacere che qualcuno racconti, che faccia uso del blog per fornire dei chiari esempi narrativi.
    Riportare le proprie esperienze non è compito facile e spesso riserva sorprese: a volte si imparano delle cose su se stessi che neppure si immaginano.
    Ma che lo dico a fare, voi tutti lo sapete meglio di me.

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