mercoledì 25 aprile 2012

Per il genere romanzo in versi...

Nello zapping webbistico che mi ha preso ultimamente (peraltro sempre tra gli stessi "canali" - mi assale infatti una specie di horror pleni nell'affrontare il web e mi ritaglio i miei piccoli percorsi quotidiani come chi in una megalopoli percorra sempre e solo le stesse vie), mi sono imbattuto nella recensione di questo strano libro. Chissà se qualcuno degli aggiornatissimi e onnivori amici redattori ha avuto modo di leggerlo.

Francesco Targhetta. Perciò veniamo bene nelle fotografie
Perciò veniamo bene nelle fotografie, di Francesco Targhetta, (Ibsn, 2012. 248 pp., 19,90 €) è un romanzo in versi; un esperimento voluto dalla casa editrice, che ha convinto il dottorando trentunenne già autore di poesie a dispiegare negli spazi lunghi del romanzo una storia che sembra autobiografica e universale.
La voce che parla è quella di un dottorando intorno ai trent’anni con una tesi in storia contemporanea e qualche rara supplenza in licei di provincia. Ma è anche il dimesso lamento di una generazione perduta, o almeno vorrebbe sembrarlo, nel plurale del titolo o nella congestione di progetti e speranze disfatte in un appartamento condiviso.
La voce che parla è una sola ma ne contiene tante: c’è Los, universitario senza prospettive, compagno di pellegrinaggi in periferia tra le prostitute e i bar, a intonare litanie disilluse; c’è Teo, che sembra l’unico ad andare avanti, con un lavoro in una multinazionale, il trasferimento a Torino e le nozze; e ci sono Mara, l’amica d’infanzia aspirante attrice, e poi Giada, una liceale introversa ed emotiva, e Gloria, la dottoranda disinvolta e prediletta dall’inaffidabile professor Pacchioni.
E c’è il protagonista, che disperatamente cerca la via d’uscita da uno stallo che somiglia troppo a una sconfitta rimandata.
È una Padova dai cieli lividi e pesanti che fa da sfondo ai pellegrinaggi in università negli uffici dei “baroni”, ai tormenti del precariato, ai compromessi mortificanti, all’indolenza nelle file davanti agli uffici pubblici come nei bar e nella vita. Il sottofondo è una musica punk improvvisata e spezzata, quella delle prove con la band, precaria anche lei.
E le offensive del Piave dalla tesi di dottorato riemergono vivide, cariche di eroismo e disperazione, nell’insensata guerra quotidiana; in quel “senso di sconcerto che dà vivere la propria giovinezza mentre c’è un intero secolo (e quale secolo) che ti cade addosso” dice l’autore.
E il tempo è la dimensione essenziale di un romanzo in cui i tempi si confondono fino a sembrare sempre il medesimo istante, fino a sembrare tempo perso: il tempo morsicato dalle pause nei turni di lavoro, il tempo dilatato delle cene accademiche con professori e dottorandi e di quelle con merendine, alcol o chiacchiere stonate, il tempo della storia con la S maiuscola, il tempo medio di conversazione delle chiamate dai call center: “tre minuti e oltre l’angoscia (perché ci parliamo delle cose vere/ogni volta per tre minuti appena?)”.
Tutto si risolve in una crepuscolare, abulica attesa, se non nella resa. In fondo: “mancare è la seconda cosa che sai fare meglio dopo aspettare”.
Se la trama è una spirale che si arrotola confusamente su se stessa, apparentemente diritta ma senza alcuna reale direzione, quel senso di nausea e di impotenza diffuso si riversa anche sulla forma: la storia si spinge per inerzia su binari metrici definiti, nel disperato tentativo di stringere l’angoscia in versi martelliani. Si avverte, a tratti, la fatica di contenere un pensiero traboccante, ma la metrica assolve almeno un compito: il bianco della pagina divora lo spazio e il ritmo assillante delle frasi interminabili spezza il fiato e riflette un travaglio esistenziale.
Così la scrittura è limitata e straripante al tempo stesso; è il precipitato chimico di una massa di pensiero che si gonfia e si accartoccia mentre la vita scivola di fianco.
C’è un bel po’ dello Zeno sveviano nell’inettitudine e nell’inadeguatezza di un colto disoccupato che lancia improperi con linguaggio forbito dai ponti e dai cavalcavia, qualche nota gozzaniana, un blando esistenzialismo e una tensione costante: l’attenta ricerca di un montaliano anello che non tiene, di una smagliatura da cui evadere.
L’intera costruzione però si risolve in un aborto, il pensiero vorticoso che è l’impalcatura stessa del romanzo ristagna in un’impasse: “Ma poi si aggiusteranno, no?, le cose,/e girerà la ruota”.
Ma già si sa che non è prevista redenzione, tutto si muove ma rimane fatalmente immobile. Si sta fermi, saldi, in drammatica attesa: per questo veniamo bene nelle fotografie.

1 commento:

  1. Mah, io il libro non l'ho letto, ma sono mosso da opposte sensazioni nei confronti della commistione tra prosa e poesia, e quindi del romanzo in versi. In generale, per dire (ma è un limite mio, assolutamente) non riesco ad apprezzare Bertolucci. Tuttavia, pur ponendo una differenza qualitativa sostanziale (non solo formale) tra poesia e prosa, ho a volte percepito in alcuni autori (Albinati, per esempio; ma mi sono occupato anche di Mussapi) una ragione interna vera del verso narrativo. A tratti mi è capitato persino di "sognarlo" per alcune cose che covo io stesso. E tuttavia ho l'impressione che per riuscirci ci si debba imbattere in una felice combinazione. Forse l'afflato epico, la coralità generazione sono un buon presupposto, ma sembra che il libro nasca da un progetto, non dalla spinta interna di un'ispirazione... Forse il collante giusto l'ha trovato Franco Loi, con l'Angel: e torniamo con questo al "trucco", al privilegio del dialetto, che fa saltare in aria molte premesse e complicazioni e poetizza d'incanto molte cose da dire in prosa-prosa...
    Andrea Temporelli

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