mercoledì 27 febbraio 2013

Son tornati i dinosauri (e non c'entra la clonazione)

Sembrerà paradossale ma anche nel mondo del teatro ci sono i dinosauri. Animali estinti, come tutti sanno, che tuttavia continuano ad abitare, non la nostra immaginazione, com'è il caso dei rettili giganti a tutti noti, ma le direzioni dei grandi teatri italiani e dunque, di conseguenza, tutto il teatro italiano - che è un sistema fortemente accentrato. Se pensiamo che la generazione tuttora alla guida dei maggiori teatri stabili non ha meno di 60-70-80 anni; se pensiamo che quella generazione ha anche potuto approfittare, per raggiungere le proprie posizioni, di un momento storico di rimescolamento generale; se pensiamo infine che la generazione precedente a questa (quella degli Strehler, Grassi, Squarzina ecc.) se n'era uscita dritta dritta dalla guerra, potremmo dire, con un pizzico di cattiveria, che solo un grande sommovimento storico, come una guerra o una rivolta sociale radicale, potrebbero far ripiombare i dinosauri nell'era Mesozoica cui appartengono. Insomma, le istituzioni teatrali sono immobili e autocelebrative, proprio come la politica. Quella stessa politica che movimenti prima più elitari, e ora ormai di massa, attaccano frontalmente come macchina del privilegio eletto a sistema. Del resto non sono certo io il solo ad aver avvistato i dinosauri. Pochi giorni fa un articolo di Roberta Ferraresi su Doppiozero ha reso noti dati che confermano l'impressione: “dando un’occhiata alle direzioni dei teatri stabili – organismo-base del sistema, che fra l’altro assorbe ogni anno, eccezion fatta per gli enti lirici, buona parte del Fus, Fondo Unico per lo Spettacolo – la situazione è lampante: su 17 teatri, 11 sono diretti da over 60, con 4 punte ben oltre i 70. Dunque, gli under 60 rappresentano solo un terzo.” Ma il problema, continua, non è solo l'età. “Vi sembra normale che in un Paese civile – si chiede il Direttore Generale dello Spettacolo dal vivo al Ministero Nastasi – ci sia gente che dal 1980 è alla guida di un teatro stabile?”. Anche se tutto questo sembra lontano dalla realtà di provincia nella quale vivo e opero, tuttavia l'eco di questa situazione è fortemente avvertibile anche da noi: la longa manu di alcune medio-grandi istituzioni teatrali pubbliche e private gestite con logiche accentratrici, tipiche di quel sistema di potere, da tempo condiziona pesantemente le attività di chi vuol fare seriamente teatro sui laghi (tra le province di Novara e Verbania: la terra di nulle parte come diceva Jarry della Polonia in Ubu roi...). E' una sorta di “colonialismo culturale” - come ho sentito sorprendentemente affermare poco tempo fa da una voce più che autorevole.

6 commenti:

  1. Vero. Ma va anche detto che una radice di tutto questo, a mio parere, è il sistema dei finanziamenti a pioggia del FUS che non agevola la cosa. Si creano lotte intestine tra fazioni nell'AGIS regionale e nazionale e i teatranti si vedono costretti per il rigido capestro del borderò ad acciarpare (quando a truffare). Credo che ridiscutere la logica dei finanziamenti ministeriali non a monte ma a valle (stesso dicasi per i quotidiani) potrebbe essere un modo per riattivare un circuito che ora stagna e vivacchia.

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  2. In realtà il FUS è un problema relativo per i piccoli gruppi. Le Selve per esempio non sono "ministeriali", anche se chi fa un lavoro come il nostro avrebbe tutto il diritto al sostegno del FUS. Il problema è la lobby delle grosse compagnie/istituzioni dei grandi capoluoghi che strozzano le attività indipendenti sui territori di provincia - per esempio incoraggiando situazioni poco chiare di intreccio tra professionismo e hobbismo a tutto vantaggio del controllo monopolistico del territorio teatrale; oppure turlupinando i sindaci e gli assessori poco pratici con fanfaronate vere e proprie, e altro ancora...

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  3. Per quel che so il FUS spande a pioggia su piccoli e grandi e in varie aree, metropolitane e non. Non va dimenticato che nel centro-nord suppliscono i finanziamenti degli enti locali (Comune, Provincia, Regione) del tutto sconosciuti da Roma in giù (dove devi sbatterti per fare esistere il singolo progetto, se ci riesci). Senza contare la grossa presenza delle fondazioni bancarie (vd. Cariplo) del tutto assenti in altre aree. Credo che azzerare i fondi pubblici (FUS in primis) sia un modo per ringiovanire il teatro, fargli sentire quella fame di esistere e di fare. Tanto teatro d'oggi sostenuto e garantito (con poco o tanto che sia) dai teatri borghesi e parrucconi a quelli presunti periferici, che con la scusa della ricerca, fanno puro manierismo autoreferenziale (e poi si lamentano se non hanno pubblico!) se sentisse lo stimolo della fame forse inizierebbe a esistere davvero. E' vero, altri tempi, pure con molti stravizi, per carità, ma il teatro degli anni 60-70 (pensa alle cantine romane) viveva di niente, faceva teatro contro tutti e tutto, senza un quattrino, gratis et amore dei, dando cose di tutto rispetto e giocandosele sulla propria carne. Ma forse è questo il nostro dna e questo dobbiamo avere.

    D.L.

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    1. Ciao Danilo, togliere il FUS e le Fondazioni e gli Enti locali... raggiungere un grado zero insomma... Tu dici rimboccarsi le maniche (ma sono già rimboccate, te lo garantisco, fino agli omeri)... Ma senza più investimenti pubblici/privati si rischierebbe di dare esclusivo diritto di vita al teatro commerciale; perché, parliamoci chiaro, nessuno, ma proprio nessuno, che non venga a patti col mercato può vivere di spettacoli venduti. Allora la ricerca sarebbe, come diceva l'ex ministro Carraro negli anni '80, una sorta di malattia infantile da superare una volta che ci si è fatti le ossa?

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    2. Può darsi...ma considera che andrebbe spostato l'asse: toglierli a monte, come prerequisito e spostarli a valle, non cancellarli del tutto. Oggi il teatro è anemico perché diventa autoreferenziale (e non parlo solo di quello svaccato da botteghini strapieni). Non riesce più a intercettare il senso e il valore comunitario del teatro (e la nostra, come sai, non è affatto letteratura teatrale, ma elitaria, di poeti, quindi poco popolare). Così come è strutturato il sistema divide la torta tra i colossi, che sono spesso i dinosauri di cui parli tu e che non vendono una beata mazza di niente, ma hanno un apparato esoso, e dà le briciole per turare lo stomaco ai piccoli. Il risultato è la stasi totale. Certi teatri (e non parlo solo degli stabili) spendono 200-300 mila euro l'anno di gestione e riservano 1/4 dei loro finanziamenti a fare spettacoli, a costruirli, mentre piccoli gruppi se va bene mettono su con 20.000 euro uno spettacolo sano (ENPALS e INPS compreso, macchinista e materiali ecc.). In questo sistema solo la ricerca intesa non come euforia stagionale ma come capacità di costruire il nuovo senza seguire mode del momento potrebbe sovvertire l'ordine. Purtroppo ho l'impressione che molto teatro lo si faccia per esaurire la pratica sul palco senza pensare molto alla risposta. Proprio perché comunque vada si esiste (miserabilmente o trionfalmente). E questo spiega come a teatro ci si vada tutto sommato (dicono le statistiche) per andare sul sicuro (i classici, le robe commerciali, i nomi di richiamo). Nessun rischio né da parte del pubblico né da parte degli operatori.

      D.L.

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  4. C’è pure chi rimpiange l’epoca di bonari mastodonti.

    Scusate se mi intrometto nei vostri discorsi specialistici ma è un po’ per salutare e un po’ per buttar giù due parole ché mi mancava l’assiduità del blog.
    Dopo tanto inutile parlare, sui media a tamburo battente (è finita la propaganda?) finalmente Franco ci riporta su ben più floridi lidi, terreni patri, di lettere o spettacoli teatrali.
    Premettendo che non so nulla di gestione teatrale, altro non potrei fare che confermare la teoria delle vostre affermazioni, con qualche personale aggiunta però.

    Io non sarei così drastico né categorico con i vecchi: perch’io lo sono, sessagenario a riposo, direste voi. Anche perché non credo che le nuove generazioni siano meglio delle precedenti: son forse uguali, piuttosto? Finché lavoravo (ma il mio era ambito tecnico) dovevo battagliare con i giovani rampanti che non esprimevano d’altronde particolari propensioni al rinnovamento: la maggior parte di noi tira spesso a campare infischiandosene di ciò che è bene o male.
    È pur vero che quando la senilità produce i suoi morbigeni effetti, è difficile tener botta. Ma ognuno è diverso, i tempi del declino fisico e mentale si allontanano sempre più (ne sa qualcosa l’Inps).

    Altro discorso è la necessità di avvicendamento, quel ricambio che andrebbe perseguito sotto tutti gli aspetti soprattutto nelle posizioni di potere. Chi prende il comando non lo vuole mollare (Andreotti docet), tende a dormire sugli allori e a propinarci la solita solfa, lo stesso cliché: forse in politica potrebbe andar bene (vien tollerato dagli elettori) ma in campo artistico è un’autentica rovina (o frustrazione).
    Chi sta in cima alla piramide dovrebbe essere di buon esempio, proporsi e proporci la fresca novità, o più semplicemente garantire un piccolo miglioramento, un passo avanti nei plurimi aspetti della disciplina artistica.

    Squarzina a Genova è tuttora venerato, lo Stabile è attualmente diretto da Carlo Repetti e Marco Sciaccaluga, ottimi professionisti che sanno spaziare su svariati fronti (ma non vorrei essere smentito).

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